Come Gestire la Rabbia

In questo articolo cercheremo di capire come gestire la rabbia.

I vari tentativi per definire cosa siano la rabbia e quindi l’aggressività sono stati molteplici nel corso degli anni, questo perché i concetti cambiano a seconda che si consideri la rabbia come un “istinto”, una “modalità comportamentale” o una “emozione” in risposta ad un evento stressante e/o frustrante.

Tra gli studiosi che si sono occupati in Psicologia di fornirne una descrizione, Hinde  nel 1974 l’ha definita come una tendenza, che è presente sia nell’uomo sia nell’animale, a manifestare un comportamento finalizzato a combattere qualsiasi fenomeno minacci l’integrità dell’organismo o tesa a provocare un danno agli altri.

L’aggressività è anche una tendenza presente in diversi comportamenti o fantasie volti all’etero ma anche all’auto distruzione.

L’aggressività, però, va precisato, non ha sempre una connotazione negativa. Infatti essa può essere adattiva quando rappresenta una risorsa per chi si deve difendere da un attacco altrui; è messa in atto con l’obiettivo di ridurre le conseguenze negative e di proteggere il benessere fisico e psichico sia proprio che del proprio gruppo di appartenenza.

L’aggressività diventa invece disadattiva quando è intenzionale e viene causato un danno.

Frustrazione chiama rabbia

Studi condotti in laboratorio hanno accertato che alcuni animali si comportano in modo aggressivo in risposta a diversi agenti stressanti, come il non ricevere la ricompensa di cibo che aspettavano, il sovraffollamento e le scosse elettriche.

Spesso i bambini mostrano un comportamento aggressivo quando sono frustrati. L’ipotesi della frustrazione-aggressione, infatti, sostiene che ogni volta che gli sforzi di una persona diretti verso il raggiungimento di uno scopo vengono bloccati, si sviluppa una pulsione aggressiva che motiva un comportamento ai danni dell’oggetto o della persona che causa la frustrazione.

Possiamo quindi dire che, anche se diverse ricerche hanno dimostrato che l’aggressività non è una risposta inevitabile al senso di frustrazione, è comunque per certo una delle soluzioni che vengono spesso prese in considerazione.

Quando ad esempio un bambino sottrae ad un altro un giocattolo, è molto probabile che il derubato si arrabbi e lo attacchi, nel tentativo di riavere ciò che è suo.

In uno studio condotto alla fine degli anni Ottanta, un gruppo di adulti che erano frustrati da un gorgo stradale interminabile sulle autostrade roventi di Los Angeles iniziò a spararsi a vicenda.

Fortunatamente gli adulti di solito sfogano la loro aggressività con le parole, piuttosto che passare ai fatti e alle mani – anche se purtroppo accade di frequente – e sono più inclini ad insultarsi, almeno prima che le cose trascendano, piuttosto che picchiarsi.

L’aggressione che è diretta verso la fonte di una frustrazione non sempre è possibile o saggia.

Alcune volte infatti non è tangibile ed è  imprecisa. La persona non sa di preciso verso chi o cosa sfogarsi, ma si sente comunque arrabbiata e quindi cerca un oggetto sul quale sfogare questa rabbia.

Altre volte chi è responsabile di questo senso di frustrazione è così potente che attaccarlo potrebbe essere pericoloso.

Nel momento in cui le circostanze bloccano un attacco diretto verso la causa della frustrazione, l’aggressività può essere spostata: ecco quindi che l’azione aggressiva viene diretta verso una persona o un oggetto innocente piuttosto che verso la causa reale della frustrazione.

Un uomo che viene ripreso severamente sul lavoro può infatti scaricare questa sua rabbia su chi  non ha nessuna colpa come la sua famiglia, ed una studentessa che è arrabbiata con il suo professore perché ha preso un brutto voto può prendersela con il suo ragazzo o con una amica.

Allo stesso modo, un bambino o un ragazzo che è arrabbiato per le sue esperienze scolastiche può ricorrere ad atti di vandalismo a scuola ma anche in strada.

Quando l’ambiente ci influenza

Uno studioso che ha condotto esperimenti approfonditi sulla rabbia e l’aggressività è lo psicologo Albert Bandura, che nel 1973 pubblicò un’opera dedicata all’aggressività, sintetizzando gli studi compiuti fino ad allora e soprattutto riportando esperimenti condotti da lui e collaboratori dall’inizio degli anni Sessanta.

Bandura con la sua teoria sociale-cognitiva, ha messo in primo piano il ruolo cognitivo attivo del soggetto nell’assimilare e riprodurre condotte aggressive e l’interazione con il contesto sociale.

Per Bandura infatti esiste una teoria dell’Agenticità, ovvero una teoria che studia la capacità del soggetto di considerarsi responsabile delle sue azioni e degli eventi che accadono, la sua percezione di averne il controllo e di poterli influenzare o determinare.

I fattori che determinando l’acquisizione di un comportamento sono molteplici, e comprendono sia motivazioni cognitive (come le strutture di pensiero, di pianificazione, di elaborazione del soggetto), comportamentali (gli schemi di azione che mette in atto l’individuo), che contestuali (come le influenze sociali che provengono dall’ambiente in cui vive la persona).

Questi tre fattori si influenzano a vicenda ed agiscono l’uno sull’altro in vario modo.

Il soggetto, quindi, non agisce in modo isolato, come se fosse solo, ma è inserito in una rete in cui è sia la causa che l’effetto del suo comportamento.

L’interazione tra strutture cognitive, comportamentali e contestuali determina l’acquisizione dei comportamenti, inclusi quelli aggressivi, in 3 modi:

  1. il modellamento, ovvero l’osservazione e l’imitazione dei comportamenti degli adulti o dei coetanei, o di modelli trasmessi dai mass media.
  2. l’approvazione o disapprovazione degli altri riguardoad una scelta
  3. l’intuizione, cioè la comprensione dell’adeguatezza e dell’efficacia di un comportamento basandosi sulla propria esperienza.

L’Esperimento del bambolotto Bobo Doll

Un gruppo di bambini della scuola materna durante un esperimento era stato messo ad osservare uno sperimentatore che picchiava ed offendeva Bobo, un bambolotto gonfiabile.

Il secondo gruppo osservava lo sperimentatore giocare invece del tutto tranquillamente.

Il terzo gruppo al contrario degli altri due, non osservava alcun modello.

Ciascun gruppo venne poi accompagnato in una stanza per giocare dove i bambini avrebbero trovato diversi giochi ed un Bobo Doll.

I risultati furono evidenti: il gruppo che aveva osservato il gioco violento lo riproponeva sul bambolotto gonfiabile. Quello che invece aveva osservato il gioco tranquillo e quello che non aveva ricevuto alcun modello, giocavano in modo meno aggressivo. Dopo questo esperimento, Bandura sostenne che i modelli aggressivi vengono tanto più imitati quanto più essi risultano premiati, secondo la logica del rinforzo positivo.

Egli collega la teoria della frustrazione- aggressività asserendo che la frustrazione si traduce in aggressività soltanto se il soggetto ha precedentemente appreso modelli di risposta aggressivi.

Le complicazioni della rabbia

Alcune patologie o condotte legate alla rabbia e all’aggressività sono il bullismo nel contesto scolastico, in cui avvengono modalità di aggressione e provocazione tra bambini che sono ripetute, intenzionali e dannose sia psicologicamente che socialmente.

Anche il disturbo della condotta che si presenta in età evolutiva sotto forma di violenza e di violazione delle norme può sfociare in età adulta nel disturbo Antisociale di Personalità.

Non scordiamo che l’aggressività può essere rivolta anche verso se stessi, con episodi di autolesionismo che spesso si presenta in disturbi come il disturbo Borderline di personalità e/o nei disturbi depressivi.

Negli adulti, è la cronaca di ogni giorno a sottolineare tristemente quanto siano diffusi lo stalking in ambito criminologico e le violenze sessuali o psicologiche nella coppia.

Alcune soluzioni

Negli ultimi decenni è diventato fondamentale il ruolo della scuola nella prevenzione dei comportamenti aggressivi, soprattutto con la diffusione del fenomeno del bullismo. E’ importante che nella scuole vengano attuati programmi di prevenzione e di intervento mirati a sviluppare un’educazione alla non violenza. Lo scopo dovrebbe essere quello di aiutare bambini e ragazzi ad affrontare in modo appropriato tutte le situazioni che potenzialmente sono in grado di suscitare reazioni violente ed aggressive.

Si tratta quindi di promuovere sia una maggiore sicurezza e fiducia in se stessi ed anche la capacità di superare difficoltà e insuccessi senza attuare comportamenti aggressivi.

Nel caso di bambini molto piccoli, di frequente vengono impiegati giochi ed esercizi di interazione che hanno lo scopo di insegnare quali sono le soluzioni e le strategie non aggressive che permettono il superamento di un problema.

In linea generale, le pratiche educative odierne mirano a canalizzare la naturale aggressività degli alunni verso forme più sane, mature, costruttive e responsabili. Gli obiettivi sono stimolare e favorire comportamenti prosociali, come la collaborazione e l’aiuto tra compagni, ed evitare forme di insegnamento repressive ed esageratamente punitive.

Infatti qualunque insegnante che tenta di dominare e controllare l’aggressività naturale degli alunni non ottiene altri risultati se non un aumento delle manifestazioni aggressive.

La rabbia vista da un’altra prospettiva

Siamo per natura portati a ferire chi abbiamo davanti e ad incolparlo ma non sappiamo che l’operazione più proficua che potremmo fare è quella di metterci in discussione.

Infatti se riuscissimo a spostare l’attenzione dagli altri a noi stessi, potremmo capire cosa sta succedendo al nostro interno, nel nostro mondo interiore.

Per riuscire a farlo però, solitamente è necessario ricorrere all’aiuto di uno Psicologo, che saprà accompagnarci in un viaggio interiore alla scoperta dei nostri bisogni.

Impariamo a distinguere stimolo e causa

Spesso crediamo che a causare la nostra rabbia sia stata una frase o una affermazione, o ancora una affermazione che qualcun altro ha messo in atto.

Se facciamo un esempio, possiamo pensare a quando il nostro capo ci rimprovera. Noi gli abbiamo chiesto un aumento e lui non ce lo concede.

Immediatamente sentiamo salire la rabbia e pensiamo che è una cosa ingiusta, che non lo meritiamo e che il nostro capo sia un buono a nulla, o che comunque non sia in grado di distinguere un lavoratore meritevole da uno che non lo è.

Se invece spostassimo l’attenzione dal suo comportamento a ciò che noi proviamo in reazione al suo rifiuto, impareremmo molto su di noi.

Infatti la vera causa della nostra collera non è il nostro superiore, ma siamo noi stessi.

Vi chiederete come sia possibile tutto questo, ma se provate a soffermarvi e a riflettere, capirete che la nostra reazione negativa è scatenata da un bisogno insoddisfatto.

Il nostro bisogno che quindi non è stato riconosciuto è quello di sentirci una persona meritevole, efficace, competente, su cui si può fare affidamento e che per questo merita un aumento di stipendio. 

Se è colpa del senso di colpa

Viviamo in un mondo in cui per la maggior parte di noi ha funzionato la regola del senso di colpa. Se da piccoli facevamo qualcosa che non andava ai nostri genitori ecco che ci facevano subito sentire responsabili delle loro sofferenze, magari inutilmente. Oppure se prendevamo un voto basso a scuola, ci sentivamo dire che non saremmo mai riusciti a rendere felice nostra madre, orgogliosa di noi.

Di conseguenza, la nostra delusione si trasformava in rabbia.

Ecco quindi che sin da piccoli siamo stati abituati a confondere la rabbia con il senso di colpa.

Per motivare un comportamento ecco che cambiamo le carte in tavola con il risultato di confondere lo stimolo con la causa. In questo modo, raccontiamo delle bugie ai nostri figli che però per loro non sono tali, bensì solide verità.

I nostri bisogni parlano

La causa della rabbia non deve essere cercata al di fuori di noi, magari in chi ci parla o ci giudica, ma nel nostro modo di pensare.

Per dirla in parole più semplici, non è il comportamento degli altri a farci infuriare, ma è il nostro bisogno insoddisfatto o deluso che parla. Se riusciamo, quindi, a metterci in contatto con i nostri bisogni invece di arrabbiarci, possiamo migliorare le cose. Ad esempio, possiamo provare comunque dei sentimenti anche forti, ma senza arrabbiarci.

Se ci troviamo a dovere scrivere al pc e veniamo distratti da dei rumori che provengono da fuori, tendiamo a perdere la pazienza con i vicini o comunque con chi è causa del rumore. Se invece riflettiamo possiamo arrivare a capire che è più utile trasformare l’aggressività con la comprensione: abbiamo bisogno di concentrazione, cosa possiamo fare nell’immediato?

La soluzione sarà quella di adottare un ragionamento divergente, ovvero cambiare stanza, chiudere magari la finestra o indossare delle cuffie.

Se a darci noia sono invece magari i nostri figli che tengono la tv ad alto volume, possiamo semplicemente spiegare loro che abbiamo bisogno di silenzio per lavorare e chiedere con calma di abbassare il volume. Sicuramente lo faranno: se ben motivate, le richieste vengono solitamente esaudite e risultano molto più attendibili se a farle è qualcuno che non è in preda alla rabbia o fuori di sé.

Se impariamo a leggere la nostra rabbia come un bisogno insoddisfatto, possiamo agire concentrandoci su ciò che ci manca e di cui abbiamo bisogno, per poi cercare di ottenerlo.

Scriviamo ciò che non sopportiamo

Un’altra tecnica efficace consiste nello scrivere su un foglio di carta i giudizi che ricorrono più di frequente nella nostra mente.

Ad esempio, se pensiamo di non tollerare chi è pigro,  chiediamoci quale sia il bisogno che è alla radice di questa convinzione. Magari siamo stati sposati con una persona che non muoveva un dito per aiutarci nelle faccende domestiche, ed oggi nutriamo un sincero risentimento verso chi sembra essere come il nostro ex.

Oppure siamo persone dinamiche e veloci, che amano le sfide e sentiamo di non sopportare chi non rischia e preferisce invece sentirsi al sicuro.

Ogni nostro comportamento è motivato

Non ci arrabbiamo perché sono gli altri che ci insultano ma perché abbiamo il bisogno di sentirci trattati con giustizia.

Se ci concentriamo su di noi invece che dare le colpe agli altri potremo migliorare le nostre condizioni di vita.

Possiamo quindi iniziare fermandoci, respirando profondamente, non parlando e soprattutto non diamo le colpe a nessuno.

Poi troviamo quali sono i pensieri che ci causano rabbia e quindi connettiamoli ai bisogni che sono loro sottostanti.

Solo adesso potremo raccontare la nostra versione dei fatti.

In questo modo avremo trasformato la rabbia e potremo capire meglio quali sono i nostri bisogni e quindi i bisogni ad essa collegati.

Dott.ssa Alessia Pullano
Psicologa e Psicoterapeuta

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    Attacchi di Panico: Come Superarli

    In questo articolo affronteremo gli attacchi di panico e le metodologie per superarli.

    State guidando tranquillamente e tutt’a un tratto sentite il vostro battito cardiaco accelerare, del sudore freddo inizia ad attraversarvi la schiena e vi sembra di non riuscire più a respirare.

    Vi sentite in trappola: l’autostrada non ha vie d’uscita, se rallentate improvvisamente rischiate il tamponamento e fermarvi è impossibile. Siete certi di impazzire.

    Oppure siete in casa, state guardando la televisione e improvvisamente la testa vi gira, il respiro diventa affannoso e non respirate, vi sembra di stare per morire, forse state avendo un attacco di cuore.

    In entrambi i casi state avendo un attacco di panico.

    Che cosa sono gli attacchi di panico

    Panico e paura indicano due situazioni molto diverse.

    Mentre la paura è una emozione che segue un pericolo reale, concreto, come un terremoto, un’alluvione e via dicendo, che mette a rischio seriamente la nostra vita, il panico non è altro che una bugia che crea il nostro cervello.

    Ci sentiamo in allarme, ma non sappiamo il perché: le sensazioni che proviamo sembrano inutili, senza scopo, perché non esiste un reale pericolo in quel momento.

    Il nostro corpo però reagisce, anche in modo violento, causandoci tremori, battito cardiaco accelerato, giramenti di testa, sudore freddo, sensazione di non riuscire più a respirare e di stare per morire.

    Spesso facciamo ricorso alle cure del pronto soccorso, certi di stare avendo un infarto, o di stare molto male, e che la nostra vita sia in pericolo.

    Niente di più falso: in pericolo c’è sicuramente la nostra tranquillità, ma non viene messa in discussione la nostra vita.

    Ecco l’attacco di panico, che ci costringe a fuggire e a chiedere aiuto.

    Il ruolo della Biologia

    Durante un attacco di panico, la prima ad attivarsi è l’amigdala, che ci fa subito reagire per prendere decisioni: scappare, reagire o immobilizzarci. Mentre l’immobilismo è caratteristico più degli animali, nell’uomo prevale la fuga. La nostra corteccia prefrontale, che è una specie di guida del nostro comportamento, ci dà il suo apporto per farci prendere le decisioni migliori.

    L’amigdala è in grado di tenere memoria sia del fatto in sé, sia del panico che ne deriva. Se agiamo in fretta possiamo respingere il ricordo negativo dell’evento che ci ha fatti stare così male, ma se tergiversiamo o evitiamo il ripetersi delle situazioni che temiamo, l’effetto è contrario.

    L’ippocampo infatti conserverà il ricordo del trauma e nel caso di un ricordo negativo esso abiterà nel nostro cervello impedendoci di condurre una vita serena.

    La mancata elaborazione delle emozioni che sono state suscitate dal fatto traumatico ci porta a volte ad allargare le nostre paure, anche effettuando uno spostamento: se ad esempio, abbiamo avuto un attacco di panico mentre guidavamo, potremmo sviluppare una insofferenza per i viaggi, preferendo condurre una vita tranquilla restando il più possibile alla larga dagli spostamenti.

    Ecco quindi che il nostro cervello mente a se stesso: al posto della paura di guidare, che riteniamo inaccettabile a livello inconscio, ecco comparire una modalità di pensiero più accettabile: “Non mi piace viaggiare, per cui preferisco restare in città”.

    Un attacco di panico può durare pochi minuti come mezz’ora.

    Per fare una diagnosi di disturbo da attacchi di panico devono verificarsi attacchi che si ripetono nel tempo, con una frequenza giornaliera o settimanale, mensile.

    Alcune crisi sporadiche, occasionali, possono comunque verificarsi, e a causa della loro portata possono cambiare il comportamento di chi ne è colpito.

    Ad esempio, chi ha avuto un attacco di panico  in ascensore cercherà di non prenderlo mai più, oppure chi ha avuto un attacco di panico mentre stava guidando cercherà, nel migliore dei casi, la compagnia di qualcuno che lo rassicuri mentre è al volante oppure nel peggiore dei casi, smetterà completamente di guidare e si sposterà con altri mezzi, ad esempio quelli pubblici. Sempre ammesso che anche questi non gli causino ansia.

    La paura appresa

    Le nostre emozioni sono in maggior parte universali: le sperimentano gli esseri umani di tutto in mondo e sono sette, al di là delle differenze culturali: gioia, tristezza, rabbia, sorpresa, disgusto, disprezzo e paura.

    Tra loro non esiste il coraggio perché esso deriva dalla paura. Infatti l’esperienza stessa ci dimostra che se affrontiamo la paura diventiamo più coraggiosi.

    Da piccoli nasciamo con due tipi di paure: la paura di cadere (da cui deriva il riflesso di moro del neonato)  e la paura dei forti rumori perché esse possono minare la nostra sopravvivenza.

    Tutte le altre sono paure che nascono in noi dopo che la vita è iniziata, e quindi sono apprese e determinate dal nostro impatto con l’ambiente che ci circonda.

    Ad esempio, chi cresce in una famiglia violenta svilupperà una forte paura/intolleranza verso  le persone violente e le grida, e così via.

    Se quindi tutte queste paure noi le apprendiamo con l’esperienza, allo stesso modo le possiamo disapprendere, ovvero disimparare.

    Naturalmente non diciamo che sia un percorso facile ma possiamo comunque, con la giusta guida,  affrontare le situazioni. A volte durante la terapia psicologica, il professionista chiede al paziente di immaginarsi in una realtà virtuale in cui sono in gioco le proprie paure e la propria vita. Il paziente deve allora stabilire quale è il suo livello di paura e quale sia quello del coraggio.

    Ben sapendo che, ad ogni paura affrontata, il livello di coraggio sale, mentre ad ogni paura evitata il livello di coraggio diminuisce.

    Affrontare la paura è la soluzione più adatta, ma facciamolo lasciandoci aiutare.

    Non farla lievitare

    Sapevate che parlare dell’ansia significa farla aumentare?

    Infatti, se da un lato ci fa bene sfogarci sul momento con qualcuno che può comprenderci ed aiutarci ad affrontare i nostri problemi, a lungo andare è come mettere del lievito in una torta per farla lievitare: più passerà il tempo e più la torta lieviterà e si ingrandirà, aumenterà di volume.

    Ecco perché, una volta che ci siamo sfogati, è più utile smettere di parlare di ciò che ci fa paura con amici ed estranei e piuttosto chiedere il parere di un esperto.

    Evitiamo quindi di sviscerare le origini delle nostre ansie e le loro possibili cause, perché così facendo, se siamo soli e non siamo seguiti da un professionista, le nostre paure non faranno che aumentare.

    Quanto siamo auto efficaci?

    Ricordiamo poi anche un altro fattore, ovvero il nostro senso di autoefficacia:

    più chiediamo e cerchiamo l’aiuto degli altri, e più calerà. Meno saremo in grado di percepire noi stessi come persone competenti, autonome, che sanno come prendersi cura di se stesse, e maggiore sarà il nostro senso di inefficacia e di incapacità.

    Facciamo l’esempio di chi ha paura di guidare: se cerchiamo la compagnia di un’altra persona, diventeremo poi schiavi di questa abitudine per cui, anche se nel breve termine saremo riusciti  nel nostro intento, quando dovremo guidare da soli ci ritroveremo in difficoltà.

    Ecco perché farci aiutare in questo modo non ci serve davvero, anzi può addirittura peggiorare la situazione.

    Il nostro sentire che da soli non possiamo farcela non farà altro che acuire il nostro senso di impotenza, e l’impotenza porta alla tristezza ed alla depressione.

    Per riattivare il nostro senso di autoefficacia dobbiamo quindi riuscire a farcela da soli seguendo regole ben precise o, meglio ancora, con un professionista che sappia individuare i nostri punti di forza per puntare su quelli.

    Evitiamo di evitare

    Chi si trova in ansia evita magari gli spazi aperti, l’ ascensore, la metro, il bus e via dicendo. Ma più noi evitiamo queste situazioni,  più la paura si rafforza e ci si ritrova sempre più lontani dalla soluzione. Evitiamo di evitare ed armiamoci di coraggio come un lottatore che deve combattere il suo avversario e guardare la sua paura in faccia: magari non riusciremo al primo tentativo, ma avremo comunque iniziato la nostra battaglia personale.

    Documentiamoci

    Se conosciamo i meccanismi dell’ansia ed il suo modo di funzionare siamo anche capaci di affrontarla meglio. Cerchiamo quindi di capire come funziona l’ansia e documentiamoci: in questo modo saremo in grado di uscirne, ma con consapevolezza.

    Parliamo con un Esperto

    Non parliamo delle nostre paure profonde con gli amici o con chi non ne sa nulla: potrebbero non capire e ferirci, farci sentire in colpa o inadatti. 

    Ad esempio, con la psicoterapia breve strategica si possono risolvere questi tipi di problematiche come gli attacchi di  panico anche in otto – dieci incontri o sedute (ovviamente molto dipende da ognuno di noi e dalla propria soggettività).

    Impariamo a gestire la paura

    La paura viene spesso interpretata male e l’ansia che ne deriva sicuramente fa stare ancora peggio. L’ansia però ci si ritorce contro quando la gestiamo in modo non efficace, mentre può aiutarci se la gestiamo nel modo più consono. 

    Impariamo dalle sfide

    Avrete vissuto almeno una volta qualche sfida che vi ha galvanizzati ed entusiasmati. Ripensateci e noterete che alla radice di questa prova c’era qualcosa che vi preoccupava, un timore o una insicurezza. La paura che viene affrontata ci genera entusiasmo perché siamo riusciti a guardarla da vicino e ad affrontarla.

    Ad esempio: avete una famiglia, dei figli, un lavoro e ve li siete guadagnati.

    Se però aveste avuto così paura del giudizio degli altri, avreste evitato di conoscere chi oggi è il o la vostra compagno/a, non lo avreste potuto conoscere a fondo e di conseguenza non sarebbe nata nessuna relazione tra di voi. Se aveste avuto paura al punto da non rischiare, sareste rimasti soli.

    Avere paura del giudizio dell’altro ci può fare nascere ansia e paura ma se noi evitiamo e diamo spazio alla paura rinunciamo e non costruiamo nessun legame e nessuna relazione.

    Anche il lavoro ce lo siamo guadagnato grazie ad una sfida vinta: il lavoro può spaventare perché inizialmente ci sono tante incognite e tanti dubbi, tante domande senza risposta. Ma se noi non le affrontiamo rinunciamo a vivere. Ecco quindi che vivendo tutti i giorni, queste paure vengono superate.

    La passione e la volontà ci aiutano ad affrontare le paure e fare ciò che ci spaventa ci permette di crescere e di imparare a gestire le situazioni che verranno .

    Come affrontare la paura

    Il panico sul momento ci può paralizzare ma ci può anche essere da sprone.

    Se non possiamo superare la paura, possiamo comunque trasformarla, magari in coraggio.

    Quando noi abbiamo  paura ed evitiamo o non affrontiamo le cose e le situazioni, nel breve tempo ci sentiamo sollevati e non ci rendiamo conto che, se diamo spazio a questo comportamento, nello stesso tempo silenziosamente l’ evitamento scaverà in noi una voragine.

    Di solito, appena l’ansia e la paura compiono, si evita una piccola cosa.

    Magari non si prende l’ascensore, oppure non si fa un esame, o non si guida. Ma se non usiamo più l’ascensore, oltre a disimparare a farlo ci autoconvinciamo che non saremo in grado di prenderlo mai  più!

    L’ansia si allarga a macchia d’olio: va a corrodere altre aree della nostra vita e ci fa ritirare dalla vita magari iniziando a farci evitare la compagnia degli amici perché abbiamo paura del loro giudizio, poi la paura si estende impedendoci di lavorare, quindi ci impedisce di uscire di casa. Essa diventa sempre più grande e forte, limitandoci sempre di più.

    Tutti i “vorrei ma non sono in grado” causano la depressione e la depressione si deve tenere alla larga il più possibile.

    Come fare?

    Solo dopo essere andati da uno psicologo che studierà il nostro caso personale, potremo sapere che cosa fare.
    Ricordiamo anche che la paura grande dissolve quella piccola: costa molta fatica, un impegno che non è fisico ma emotivo, e quindi lo buttiamo sotto il tappeto cercando di non pensarci più. Ma invece che rendere la nostra vita più semplice, la peggioriamo.

    Evitare sempre qualcosa oltre a farci scaturire effetto macchia d’olio ci fa accumulare situazioni che evitiamo al punto da condizionarci la vita in toto.

    Se pensiamo a tutte le paure che abbiamo o che potremmo avere se perseveriamo in atteggiamenti mirati ad evitare ciò che ci causa disagio, riusciremo ad essere anche più motivati per combattere queste spinte alla fuga.

    Al suo nascere infatti la paura può essere minima, ma con il passare del tempo può assumere proporzioni molto vaste ed interessare tutta la nostra vita.

    La “Paura amica”

    La paura amica ci aiuta a dare il meglio di noi e a trasformare la paura nemica in amica. Ecco come fare.

    Esercitare la linea della paura

    Tracciate una linea retta e scrivete uno zero all’inizio e il numero cento alla fine.

    Sotto il numero 100 scrivete quella che è la vostra paura più grande, l’evento più catastrofico che potrebbe accadervi.

    Recuperate la vostra preoccupazione di oggi e quindi confrontatela con la vostra paura più grande: ora date un punteggio da zero a cento alla vostra preoccupazione attuale. Molto probabilmente fare questa operazione vi aiuterà a ridimensionare il problema ed anche a prenderne le distanze, almeno un po’.

    Calcoliate adesso l’impatto che la vostra preoccupazione avrà su di voi tra un po’ di tempo, sia una settimana, un mese, un anno. Chiedetevi ad esempio: “tra un mese quanto mi preoccuperà questo pensiero?”

    Contestualizzate nel futuro l’impatto di ciò che vi preoccupa, perché tutti abbiamo la tendenza a sovrastimare il peso e la gravità di ciò che riteniamo essere un problema.

    Ecco quindi che solitamente si tende ad occupare l’ottanta per cento delle nostre energie a rimuginare sul problema e a lasciare alla possibile soluzione solo un misero venti per cento. Invece dovrebbe accadere il contrario: dovremmo dedicare il 20 per cento del nostro tempo alla preoccupazione e l’ottanta per cento di esso ad agire, studiando e confrontandoci, riflettendo e sperimentando, perché  occuparci è molto più utile che preoccuparci.

    Viviamo le nostre paure a piccoli passi e a dosaggi bassi, imparando una sorta di matematica della paura anche facendoci aiutare da delle letture ma soprattutto da uno Psicologo.

    Dott.ssa Alessia Pullano
    Psicologa e Psicoterapeuta

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