Monofobia: La Paura di essere Soli

In questo articolo analizzeremo la monofobia ovvero la paura di essere soli.

“La solitudine può portare a forme di libertà straordinarie”

Fabrizio De Andrè

Così De Andrè presentava in un live il suo album “Anime sole”, album dedicato alla solitudine, si può dire quasi un inno alla solitudine, strumento che secondo il cantautore permette un contatto profondo con noi stessi e con l’universo senza imposizioni esterne.


Uno spazio limitato in cui pensare meglio, in cui osservare meglio se stessi e il mondo, senza etichette né sovrastrutture. Qualcosa di più spontaneo, vero, che avvicina alla libertà.


Ma anche lo stesso cantautore definiva faticosa la solitudine, egli stesso diceva che “la libertà viene conquistata attraverso il disagio della solitudine” .

La solitudine, dunque, come tutti sappiamo e come l’arte e la psicologia ci fanno vedere può essere, infatti, in alcuni casi, vissuta come qualcosa di pericoloso, da cui allontanarsi. In questi casi si entra nel mondo della psicologia e delle fobie e si parla di monofobia.

Cos’è la monofobia

La monofobia o autofobia può essere definita come la paura, il timore forte e irrazionale di restare soli. Essa ha a che fare, dunque, con il timore della solitudine.

Mi viene da fare con voi un esercizio di immaginazione. Proviamo ad immaginare la solitudine. Un luogo, uno spazio e le sensazioni e le emozioni ad essa connesse.


A me personalmente viene in mente il silenzio; questo silenzio si colora di un’accezione negativa agli occhi di chi soffre di questa paura.

Diventa silenzio cupo, buio, ti toglie il fiato, ti irrigidisce. E’ una paura amara, di non trovare nessuno, a volte di non poter chiedere aiuto, quando il corpo parla per noi, tutto ciò si accompagna anche ad una sensazione di freddo psicosomatico.


Sono tutti sintomi che hanno a che fare con l’ansia.

L’ansia è, infatti, uno dei disturbi maggiormente correlato alla monofobia, così come l’ansia nella sua forma più forte e violenta: gli attacchi di panico.


La monofobia può accompagnarsi spesso ad altre problematiche quali la depressione, il disturbo dipendente della personalità o il disturbo bordeline di personalità.


Principalmente, essendo una fobia rientra nel quadro dei disturbi d’ansia con tutta la sintomatologia che li caratterizza: battito cardiaco accellerato, fame d’aria, irrigidimento dei muscoli, tensione corporea, vertigini.

Come si manifesta la Monofobia?

La monofobia è un disagio particolare, che si riversa anche nella gestione delle relazioni sociali in cui la manifestazione diviene evidente.


Il profondo senso di insicurezza vissuto dalle persone monofobiche può spingerle, infatti, ad accompagnarsi a qualsiasi persona per evitare di sentire quella paura o quel senso di vuoto.

Spesso ciò spinge alcune persone a rimanere in relazioni insoddisfacenti, dalle quali non si allontanano perché la paura della solitudine è talmente soverchiante da agire prima della presa di coscienza delle proprie emozioni più spontanee.

Ci si accontenta di relazioni non felici pur di non stare soli. In questi casi la relazione è centrata e costruita sulla paura, non permettendo al soggetto di vivere tutto il ventaglio delle emozioni e dei sentimenti disponibili nel qui ed ora. Il contatto con l’altro è bloccato, la relazione resta ad uno stato superficiale.


La monofobia è una paura che colpisce moltissime persone, e che nella moderna società, fatta a volte di rapporti veloci e poco profondi prende sempre più piede.

Spesso la monofobia ha un’accezione e una modalità di manifestazione più ampia. Ci si può sentire soli anche in mezzo a tante persone, in quel caso spesso non si riconosce la compagnia, perché prende il sopravvento la paura di non essere amati.


Molti soffrono di monofobia e non ne sono propriamente consapevoli, metteno, infatti, in atto varie strategie di compensazione che li aiutano a non consapevolizzare.

Evitano ad esempio di rimanere a casa da soli, inventandosi le scuse più disparate che fungono da meccanismo di difesa e non permettono di far arrivare alla coscienza tutta una serie di informazioni importanti sul punto in cui si trovano.

Altri modi in cui si manifesta la monofobia può essere la necessità di lasciare la tv accesa quando si è in casa da soli ad esempio, per non sentire il silenzio ed esorcizzare la paura trovando nelle voci e nelle musiche televisive compagnia.

Inoltre anche la percezione del tempo passato da soli in chi è monofobico è alterata: sembra passi molto più lentamente il tempo da soli, a volte sembra non passare mai.

Anche fare delle attività da soli sembra impossibile, spesso il monofobico chiede la presenza costante e rassicurante di qualcuno nelle sue attività, anche se si tratta di fare la spesa.

Avere questa paura è senz’altro difficile. E’ uno stato di tensione costante ed estenuate, tuttavia c’è qualcosa che può alleviare la sofferenza: non è uno stato perenne, può essere modificato e si può trovare l’equilibrio e la forza di vivere una vita più serena.

Monofobia e solitudine: due concetti differenti!

La monofobia va scissa e distinta dalla solitudine.

Vi sono persone che si sentono sole perché non circondate dai propri affetti o da amicizie nutrienti.

Persone che passano il tempo da sole perchè sono in una nuova città o ancora per motivazioni differenti.

Insomma ci sono persone la cui vita sociale, per svariati motivi può risultare scarna. Sentirsi soli in queste circostanze è una riposta del tutto naturale di un essere umano.

Non ha nulla a che vedere con la paura irrazionale di restare soli, che come detto in precedenza si può manifestare anche quando si è circondati da molte persone.

Quali sono le probabili cause della monofobia

Solitamente la paura di restare soli affonda le sue radici nell’infanzia, in esperienze di abbandono o di una presenza non costante da parte del care-giver che ha fatto temere al bambino l’abbandono.

La minaccia può essere anche solo percepita da parte di un bambino, che essendo molto piccolo ha bisogno di un adulto per sopravvivere.

Si tratta quindi di esperienze di abbandono reale o percepito, che divengono esperienze traumatiche, segnando profondamente degli aspetti di sé con cui la persona crescendo guarderà se stesso e il mondo.


Il terrore del bambino è, dunque, legato alla sua sopravvivenza, alla paura di non farcela da solo da solo non essendo autonomo.

Quest’esperienza può da adulto ripresentarsi sotto forma di paura della solitudine, percepita appunto come pericolosa.

La persona si percepisce non capace di rimanere da solo, riattivando il ricordo doloroso della sua infanzia. Tutto ciò influenza i livelli di autostima , di autonomia, di indipendenza e la percezione di sé.

La persona ha bisogno della presenza di qualcuno che lo rassicuri evitando il confronto con quello che viene percepito come un pericolo, la solitudine.

Nell’immaginare la solitudine ad inizio articolo, ognuno di noi, in base al momento attuale che sta vivendo, ma anche in base ai momenti precedenti, come quelli del lockdown in cui abbiamo vissuto il concetto di solitudine in un verso (chi era distante da tutti e si sentiva solo) chi in un altro (famiglie numerose in cui è stato difficile trovare il proprio spazio) abbiamo sperimentato rispetto al concetto di stare soli piacere e relax o inquietudine e paura.

Questa percezione ha a che fare con molti elementi, uno dei quali è anche l’estensione temporale dello stare soli. In ogni caso appare chiaro che il concetto di solitudine ha in sé una doppia accezione: oltre a quella negativa associata alla tristezza vi è anche quella positiva, associata all’idea di staccare la spina.

Solitudine, dunque, come momento per stare con noi stessi, ascoltarci, capire come stiamo, ascoltare il nostro corpo, i nostri ritmi, rallentare se necessario, rigenerarsi. In altre parole, prendersi una pausa dai frenetici ritmi che richiede la società moderna e tutti i ruoli che in essa rivestiamo con le preoccupazioni che ci assillano.


Sembra, dunque, chiaro che stare da soli non necessariamente significa essere soli.


In tal senso, propongo di riappropriarci dell’idea di passare del tempo anche da soli per nutrirci di un tempo più calmo e arrivare a quelle che De Andrè definiva come straordinarie forme di libertà, in cui tutte le sovrastrutture cedono lasciando spazio al relax, utile per entrare di nuovo in contatto pieno con il mondo.

E se la solitudine fosse positiva?

Strumenti per superare la paura

Quando la paura di stare soli raggiunge livelli estremi un modo per superarla e riappropriarci di risorse e autostima è quello di rivolgersi a un professionista della salute mentale, uno psicologo o uno psicoterapeuta, con il quale intraprendere un percorso in cui ricostruire la cosiddetta base sicura (Bowlby) grazie alla quale si sperimenta la possibilità di sentirsi autonomi e protetti, camminare da soli senza farsi prendere dalla paura di rimanere soli e di sentirsi in pericolo.

Ritrovare il proprio baricentro senza appoggiarsi a qualcuno di esterno da noi.


Sarà molto importante iniziare a riconoscere il proprio valore mettendo a fuoco tutte le volte che da soli, in qualche situazione, si è stati capaci di farcela.

È fondamentale riconoscere le proprie risorse e renderle arma per combattere la paura, emozione che quando diventa soverchiante ci racconta una visione distorta di noi e della nostra realtà.

Ci descrive come incapaci dandoci lenti di lettura non nostre. Riconoscere le proprie capacità, al contrario, conduce tutti inevitabilmente ad aumentare i propri livelli di autostima e di fiducia in se stessi.

Alla base di tutto ciò, la costruzione di una base sicura rappresenta le fondamenta di una rinascita che sarà capace di fare un sorriso di scherno a quella paura che ha vissuto per noi, deciso per noi e bloccato molte azioni ed emozioni.


Col tempo la paura della solitudine si affievolirà lasciando spazio alla capacità di decidere, di volta in volta, se si vuole stare da soli oggi, se si ha bisogno di ricaricare la spina, o se si vuole stare con gli amici, scelti senza il terrore della solitudine, ma grazie a caratteristiche di compatibilità che rendono quelle relazioni maggiormente nutrienti. Insomma la consapevolezza e la capacità decisionale saranno, a questo punto ulteriori valori aggiunti da poter utilizzare.

Dott.ssa Alessia Pullano
Psicologa e Psicoterapeuta

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    Sindrome dell’Epoca d’Oro

    In questo articolo analizzeremo la sindrome dell’epoca d’oro.

    Ogni epoca si è contraddistinta per eventi importanti, che ne hanno segnato il vivere quotidiano.

    Automaticamente quando rammenti un certo periodo storico, compaiono alla mente importanti avvenimenti, che ne hanno plasmato, il vivere quotidiano.

    L’epoca Rinascimentale, con i suoi pittori.

     Michelangelo, con i suoi dipinti ha lasciato, una firma indelebile a tutte le generazioni future.

    Leonardo da Vinci, con i suoi lavori, sarà ricordato da tutte le generazioni future.

    Cosi Poeti, come Dante, scrittori come Hemingway, hanno abitato epoche diverse dalla nostra.

    Inutile, rammentarli tutti, sono nella nostra memoria collettiva; studiati, contemplati, da studenti e adulti, che di ogni genere e grado, ne hanno apprezzato l’inestimabile valore. 

    Non sempre però l’epoca che li ospita, attribuisce loro il giusto riconoscimento.

     Bisogna aspettare, epoche successive, perché venga riconosciuto il giusto valore. 

    Questo perché l’ Holfast, il potere costituito, dal gruppo dominante, fatica a lasciare il posto al nuovo, che il più delle volte si configura come rivoluzionario. 

    Ecco, che ai dipinti di Van Gogh, viene attribuito merito, dopo la sua morte, mentre la sua vita lo vedeva emarginato e solo e i suoi quadri non erano capiti.

    E’ come se si dovesse volgere lo sguardo indietro, elevarsi a guardare retrospettivamente quello che ci ha preceduto, con uno sguardo nostalgico per tutto ciò, che ci ha lasciato.

    La Sindrome dell’epoca d’oro

    Questa sindrome, riguarda un particolare stato d’animo, che fa desiderare non solo di volgere lo sguardo al passato, ma di appartenere ad un’altra epoca, che non sia quella nella quale il destino ci ha fatto capitare.

    Questo sguardo nostalgico, ha accompagnato persone contemporanee, ma anche tante anime sensibili del passato, che negando la banalità del presente, desideravano vivere in un periodo glorioso, dove esaltanti gesta, avevano accompagnato, il vivere quotidiano di quell’epoca.

    Un po’, quello che accade, ad ognuno di noi, quando,  va a visitare una città d’arte e nei suoi capolavori, assapora ancora, gesta memorabili di una storia ormai passata, ma ancora vivida. 

    Così come Cicerone desiderava, aver potuto andare a passeggio con Catone, così tutti noi abbiamo volto lo sguardo nostalgico indietro, sognando di aver potuto vivere in un’epoca, che idealmente pensiamo a noi più congeniale.

    Questa negazione delle banalità del presente, racchiude in sé una incapacità personale ad adattarsi al vivere quotidiano, ad interfacciarsi con una realtà, che si avverte pesante e non completamente appartenente al nostro sentire.

    Quindi questo fuggire in un’epoca remota, aiuta a superare difficoltà personali di adattamento.  

    Diciamo, che chi presenta questa sindrome, non coglie appieno le opportunità che il suo tempo, presente può offrire.

    “ Carpe diem”, cogli l’attimo,  non appartiene all’individuo che soffre di questa sindrome, quanto piuttosto essere avvolti da una nostalgia, un languire nostalgico di qualcosa che in fondo non gli è mai appartenuta. 

     Tutto Raccontato in un Film: Midnight in Paris

    In questo film, Woody Allen, racconta di Gil, il protagonista, che rimane incantato dal ricordo di una sfavillante Parigi anni 20. 

    In questo ricordo nostalgico, può incontrare i suoi beniamini come Hemingway, Fitzgerald e Picasso. Sfuggire ad un rapporto ormai giunto al termine per mancanza di sintonia, ed innamorarsi di Adriana, l’amante di Picasso.

    Passeggiare indisturbato, nelle strade notturne, circondato da fantasmi di personaggi famosi.

    Parlare coi sui mentori, trovare ispirazione, essere coccolato ed accolto in un grembo fecondo, di geni.

    Cosa spinge Gil, verso questa fantastica avventura?

    Sicuramente, il suo vivere quotidiano è privo di riferimenti positivi e gratificanti.

    Con la sua futura sposa, non ha niente in comune, né interessi, né progettualità.

     In Adriana, trova invece una musa ispiratrice, può essere sé stesso, continuare a credere nel suo progetto, ritrovare fiducia in sé stesso, sentirsi compreso ed accolto.

    Queste sono fondamentalmente le richieste interiori, che inducono una persona, a cercare in un tempo passato, quello che il tempo presente, non è in grado di offrire.

    Caratteristiche personali

    L’orientamento spazio- temporale, è da sempre una delle principali forme di valutazione della personalità di un individuo.

    Si cerca sempre, una sua dimensione di orientamento spazio-tempo.

    Perché l’Io deve essere ben radicato, nello spazio- tempo presente o perlomeno averne coscienza, quindi come spesso succede, l’indicatore, che fa scattare la lucina rossa dell’alert, è quanto un individuo, sia assorbito, in questa ricerca spasmodica del passato e il presente non sia più il suo tempo.

    La negazione, è diventata, la sua difesa prevalente e il volgere lo sguardo indietro, un alibi, per non vivere, più il suo tempo attuale.

    Forse per capire meglio questa sindrome, ci può venire in aiuto il mito di Orfeo.

    Orfeo, Mito del passato

    Orfeo, si era innamorato della ninfa Euridice, sulla quale aveva posato gli occhi anche Aristeo, un apicultore, figlio di Apollo.

     Proprio per sfuggire a Lui, Euridice calpestò una serpe che la uccise. 

    Orfeo, allora in memoria della sua amata, cantò canzoni così cariche di disperazione, da impietosire tutte le ninfe e gli dei. 

    Gli fu consigliato di scendere nel regno dei morti, per tentare di convincere Ade (Plutone) e Persefone (Proserpina), a far tornare in vita la sua amata.

    Così fece, e il forte sentimento di dolore delle sue sue canzoni, convinsero gli dei a concedergli questa possibilità, ad una condizione però, di non volgersi mai indietro, a guardare il volto dell’amata, fino a quando non avrebbe raggiunto il regno dei vivi.

    Così Orfeo partì, con al seguito la sua amata, ma mentre ripercorreva il suo viaggio a ritroso, tanto fu il desiderio e la nostalgia di rivedere il suo volto, che irresistibilmente si voltò, facendo scomparire in un attimo Euridice, risucchiata per sempre, nella voragine infernale.

    Questo mito, ci può far comprendere, che la malinconia e il dolore per qualcosa di ormai scomparso, possono essere, il motore per andare a riprendere qualcosa di morto, sepolto, alla sola condizione di mantenere sempre lo sguardo in avanti, proiettato in un futuro. Volgere lo sguardo troppo indietro rischia di, imbrigliarci in un vortice dal quale, poi può essere difficile liberarsi. Questa malinconia per un periodo che noi consideriamo d’oro, può risultare una dolce trappola, dalla quale difficilmente riusciamo a liberarci. 

    Conclusioni

    Quindi niente paura se abbiamo simpatia per un certo periodo storico e avremmo voluto viverlo pienamente, con le sue gioie e dolori.

    Importante capire, quando questa ricerca, ci assorba completamente, impedendoci di vivere la quotidianità, il presente.

    Se sta succedendo questo, chiediamoci, se nella nostra vita attuale, ci sono delle cose che vorremmo cambiare.

     Persone con le quali, non abbiamo più nulla da condividere, o progetti ormai privi di significato, che ci stanno assorbendo completamente, ma a cui noi ormai non teniamo più. 

    Quindi prendiamo il coraggio di cambiare, ciò che ci impedisce di affrontare in maniera costruttiva ed appagante il nostro presente. 

    Dott.ssa Alessia Pullano
    Psicologa e Psicoterapeuta

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      Quando lo Stress incide sul Cuore

      In questo articolo analizzeremo l’incidenza dello stress sul cuore.

      Da sempre la saggezza popolare ci illumina sulla correlazione tra lo stress e il cuore, correlazione evidente in modi di dire quotidiani, come “quel poveretto è morto di crepacuore” o “sono talmente nervoso che mi scoppia il cuore”.

      Il cuore è il nostro metronomo degli eventi e il suo battito ci da informazioni anche sul momento che stiamo vivendo e sulla quantità di stress che stiamo affrontando.

      Nella società della velocità, del raggiungimento degli obiettivi, delle ore nel traffico e del lavoro senza orari, lo stress è una risposta dell’organismo molto diffusa.

      Ci definiamo stressati in una serie di situazioni che effettivamente mettono a dura prova la nostra resilienza.

      Alcune situazioni sono passeggere, provocando quella che in psicologia viene definita reazione di stress acuto; altre situazioni sono continuative, connotandosi come stress cronico e richiedendo al nostro corpo uno sforzo maggiore. 

      Si, perché il nostro corpo è coinvolto attivamente nella risposta all’evento stressogeno. Ma andiamo per gradi, parlare di stress senza definirlo non ci aiuta certo a capire a fondo! E allora cos’è lo stress?

      Cos’è lo Stress ?

      Lo stress è una risposta psicofisica del soggetto dinanzi a richieste dell’ambiente percepite come eccessive.

      Eccessive perché troppe a livello quantitativo, oppure perché il soggetto non possiede in quel momento le giuste risorse per far fronte a quell’evento, o ancora perché le percepisce come minacciose.

      Sono molti e diversi gli eventi stressogeni, la cui valenza cambia in base a fattori di protezione individuali e in base alle caratteristiche dell’evento in sé, ma anche in base alla valutazione dell’evento da parte del soggetto.

      Vi sono degli eventi che sono considerati in psicologia come traumatici e che portano con sé una forte carica di stress che chi li vive si trova a dover affrontare.

      In generale creano stress  gli eventi su cui sentiamo di avere uno scarso controllo e poca se non proprio zero influenza e che hanno, inoltre, poca prevedibilità (licenziamento, morte di una persona cara) .

      Ma anche cambiamenti importanti della nostra vita, cambiamenti socialmente definiti come belli, come edificanti, quali ad esempio il matrimonio o il trasloco.

      Si, sono eventi stressogeni molto forti in quanto portano con sé una serie di adattamenti molto importanti e duri.

      Lo stress, infine, può derivare da conflitti interni che ci mettono a dura prova.

      Tanti eventi possono produrre stress con la conseguente sensazione di essere sotto pressione a livello emotivo e mentale.

      Il senso di pressione è ciò che meglio descrive lo stress; la parola stress è stata proprio mutuata dalla metallurgia in cui si fa riferimento alla pressione esercitata su un metallo per testarne la resistenza.

      Prima di addentrarci nei segnali per riconoscere lo stress mi preme farvi sapere che lo stress può avere anche una valenza positiva favorendo l’adattamento agli eventi cui andiamo incontro.

      Ad esempio lo stress che sentiamo prima di un esame, di un colloquio importante o di una gara, è semplicemente positivo perché ci permette di arrivare con la giusta carica all’evento. Questo tipo di stress è definito eustress.

      Al contrario il distress, o stress negativo è quello che diventa preponderante e determina un sovraccarico importante. 

      Riconoscere lo Stress

      Il primo passo importante è riconoscere lo stress, che è indice che stiamo chiedendo troppo a noi stessi e che quindi è forse il caso di rallentare e curarci di noi.

      Vi sono dei segnali fisici frutto dello stress, in quel caso il nostro corpo ci sta avvertendo di un malessere.

      Questi segnali possono essere mal di testa, mal di stomaco, tachicardia, affaticamento, senso di stanchezza, tensione all’altezza del collo e delle spalle (a volte addirittura cervicalgia muscolo tensiva), sudorazione, problemi del sonno.

      A livello emotivo lo stress si può manifestare attraverso nervosismo, rabbia, confusione, difficoltà di concentrazione, ansia.

      Alcune persone mettono in atto comportamenti deleteri per se stessi allo scopo di sentire meno lo stress, come un consumo eccessivo di alcool o tabacco  che non contiene lo stress, ma , al contrario a lungo andare peggiora solo la situazione aumentando i livelli di ansia.

      Come incide lo Stress sul nostro Cuore ?

      È evidente il legame stretto tra psiche e soma, corpo e mente in tutte le nostre attività.

      Ma la questione dello stress ci permette di vedere in maniera ancora più chiara questo legame e questa interdipendenza. Lo stress è una risposta, infatti, psicofisica a degli eventi.

      È chiaro, dunque, che il corpo è direttamente coinvolto nella risposta. Dinanzi ad uno stressor (evento stressogeno), infatti, la prima cosa che avvertiamo è la tachicardia, dunque aumenta il nostro battito cardiaco e aumenta anche la pressione arteriosa al fine di far arrivare un maggiore afflusso di sangue agli arti.

      Questo perché il nostro corpo, dinanzi ad un pericolo (fosse anche solo immaginato) mette in atto l’ancestrale reazione attacco-fuga preparandosi a scappare o ad attaccare.

      Gli ormoni direttamente coinvolti in questa reazione sono adrenalina e noradrenalina che, prodotti dalle ghiandole surrenali, agiscono proprio aumentando il battito cardiaco e accelerando la respirazione.

      La reazione adrenalinica è totalmente positiva e adattiva, tuttavia se prolungata nel tempo tende a diventare nociva e dannosa per le arterie e il cuore che ne escono sovraccaricati.

      Dunque, a livello cardiovascolare, lo stress richiede al nostro cuore e ai nostri vasi sanguigni di lavorare in maniera molto più intensa degli altri momenti, connotandosi così come fattore di rischio per lo sviluppo di cardiopatie quali ipertensione, ischemia, ictus, infarto e arteriosclerosi.

      Il modo in cui con il nostro corpo ci prepariamo ad affrontare l’evento stressante è davvero meraviglioso, ma poiché non siamo fatti per rimanere in iperattivazione per un periodo lungo di tempo il rischio è proprio quello di reagire ad uno stress cronico in maniera continuativa tenendo costantemente attiva la risposta attacco fuga con tutte le alterazioni cardiovascolari che ne conseguono.

      La cronicità dello stress è segnalata da un alto livello di cortisolo nel sangue, conosciuto come ormone dello stress, i cui livelli alti continuativi hanno un’importante incidenza sulle cardiopatie.

      Lo stress può, quindi, stancare il nostro cuore ed arrivare persino a danneggiarlo. 

      La Sindrome del Cuore Infranto

      Sono tante le evidenze scientifiche a sostegno dell’incidenza dello stress sul cuore.

      In Giappone nel 1991 hanno addirittura parlato di una sindrome cardiaca derivata dallo stress. Il nome è sindrome tako-tsubo o del cuore infranto o ancora definita cardiomiopatia da stress.

      L’incidenza della sindrome è molto bassa, ma ciò che è degno di nota è il fatto che i pazienti che hanno presentato questa patologia erano stati esposti a stress prolungati.

      La sua espressione è la modificazione transitoria del ventricolo sinistro che prende la forma di un cestino (tsubo) che i pescatori utilizzando nella pesca dei polpi (tako). Da qui anche il nome. I sintomi sono la respirazione alterata (dispnea) e un dolore toracico.

      È spesso correlata con l’ansia a riprova del fatto che livelli di stress prolungati incidono sul cuore, nel caso della sindrome di tako-tsubo addirittura fino a mutarne, temporaneamente, la forma.

      Correlazione Stress-Cardiopatie

      Uno studio condotto tra il Massachusetts General Hospital (Boston) e Icahn School of Medicine (Mount Sinai) ha posto in evidenza la correlazione tra stress e problemi cardiovascolari.

      Secondo questo studio,  la spiegazione sta nell’amigdala, ghiandola situata nel cervello e deputata alla gestione delle emozioni, in particolare della paura, tanto da venir denominata da alcuni il centro della paura.

      Lo studio afferma che in situazioni di stress, l’amigdala funziona a regime aumentato scatenando una risposta immunitaria, segnalando, quindi, al midollo di produrre più globuli bianchi.

      Questi ultimi creano eccessivi processi infiammatori ai danni delle arterie. Ciò aumenta il rischio di creazione di placche arteriosclerotiche Lo studio ha evidenziato, che nel campione della ricerca composto da 300 persone, dopo un periodo di 4 anni i soggetti più stressati e dunque con l’amigdala più attivata hanno sviluppato con maggiore frequenza  malattie cardiovascolari.

      Lo studio non ha aggiunto nulla all’informazione che lo stress incide sul nostro cuore, ma è pionieristico in quanto ha dimostrato in che modo ciò avvenga, quale meccanismo sia alla base del processo.

      Lo Stress agisce indirettamente sul Cuore

      È molto importante sapere che lo stress agisce sul nostro cuore anche in maniera indiretta, attraverso comportamenti messi in atto da noi frequentemente quando siamo sotto stress.

      Sono comportamenti quali l’uso di alcolici, il consumo di sigarette, maggiore sedentarietà o un’alimentazione scorretta e carica di carboidrati.

      In particolare l’aumento dell’apporto di carboidrati è mediato dall’aumento dei livelli di cortisolo. Infatti l’assunzione di carboidrati tende a modulare i livelli di cortisolo nel sangue.

      Per quanto riguarda l’alimentazione scorretta e carica di calorie nei periodi di stress, vi svelo che il nostro corpo ci pone un tranello!

      Infatti le grandi abbuffate aumentano il livello di serotonina, l’ormone della felicità, ma quando mangiamo a dismisura diminuisce la nostra voglia di muoverci perché ci sentiamo pieni come un uovo!

      A tal proposito consiglio sempre di combattere contro lo stress, ma anche contro ansia e depressione, facendo un po’ di movimento, un po’ di sport che riduce il livello di cortisolo nel sangue e stimola la produzione di endorfine e serotonina che sono direttamente collegati alla nostra serenità.

      Come abbassare i livelli di Stress ?

      Uno dei modi fondamentali e di elezione per abbassare i livelli di stress è il movimento. Lo sport, la cui intensità va legata al soggetto, aiuta tantissimo.

      Permette innanzitutto un movimento, che va ad ostacolare la passività e la sedentarietà di chi vive un momento di stress.

      Stimola, inoltre la produzione di endorfine e serotonina, collegati alla serenità .

      Lo sport abbassa i livelli di cortisolo, ormone dello stress, i cui livelli alti nel tempo agiscono in maniera negativa sul sistema immunitario e influenzano l’insorgenza di malattie cardiovascolari. Anche praticare yoga aiuta molto. 

      Coltivare delle passioni, leggere, cucinare, fare giardinaggio, fotografare, sono tutte attività creative, che aiutano a fronteggiare lo stress.

      Alcune attività possono essere fatte con altre persone permettendoci di avere anche uno scambio umano e di sentirci meglio.

      Le relazioni sociali agiscono, infatti, come fattore di protezione . È importante staccare la spina e dedicare del tempo a se stessi, lasciando fuori le preoccupazioni incalzanti.

      Teniamo presente che nei momenti di stress spesso si fuma o si beve di più. Ebbene queste sono azioni che non aiutano ad abbassare lo stress, e incidono direttamente sul sistema nervoso e sulla respirazione peggiorando la situazione.

      Una sana alimentazione, con un buon apporto di frutta e verdura, permette di sentirci meglio e di mitigare lo stress.

      Alla base di tutti questi accorgimenti è essenziale sapere di poter avere un proprio spazio contenitore che si può trovare iniziando un percorso psicoterapico che permetterà di potenziare le risorse con cui fronteggiare eventi stressanti.

      Dott.ssa Alessia Pullano
      Psicologa e Psicoterapeuta

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        Crisi di Coppia: Quando chiedere Aiuto

        In questo articolo analizzeremo la crisi di coppia e quando è il momento di chiedere aiuto.

        Innamoramento e Amore

        Quando la relazione di coppia ha inizio, si ha la percezione che nulla mai può andare storto. Si vive nell’illusione che tu e il tuo partner potreste insieme superare ogni tempesta.

        Dopo un po’ di tempo però l’idillio si rompe, il principe o la principessa diventano semplicemente le persone che sono, con pregi e difetti.

        In questa fase spesso ci si pone la domanda: “ma come ho fatto a innamorarmi di lui/lei?”.

        Le risposte possono essere milioni, ma le coppie che rispondono con un “nonostante tutto, ti amo” sono quelle che superano l’innamoramento e possono iniziare a vivere la fase dell’amore. 

        È la fase dell’impegno reciproco, in cui siamo totalmente aperti e fiduciosi verso il partner.

        Le debolezze sono state messe in gioco, perciò se non ci fosse un estremo senso di fiducia verso l’altro la relazione non riuscirebbe a crescere.

        Infatti, in questa fase inizia la costruzione di progetti di vita comuni come vivere insieme, il matrimonio, la nascita di un figlio.

        Giorno dopo giorno si impilano mattoncini di complicità, affetto, intimità e comprensione. Non è che questa fase sia tutta rose, cioccolatini e biglietti del cinema… anzi!

        È il momento in cui la coppia si mette veramente alla prova con la quotidianità. Nonostante si siano superate delle fasi importanti, a questo punto anche le coppie che hanno costruito più saldamente, possono trovarsi a fare i conti con una crisi. 

        La crisi non è un evento negativo

        Una precisazione, il termine crisi etimologicamente derivante dal greco (perciò con l’accezione a noi più vicina culturalmente) significa fare una separazione, distinguere delle parti.

        Ciò crea confusione e forse anche parte del pregiudizio che nella nostra cultura si è sviluppato a proposito delle possibilità che la crisi offre.

        Rapportando l’idea di separazione alla crisi di coppia, non dobbiamo intendere questo momento come un allontanamento degli individui che la compongono, piuttosto è come se in una data situazione i partner sentissero la necessità di sospendere quella co-costruzione e riflettere su quali parti non sono più necessarie alla loro opera.

        Tutto ciò avviene al fine di sviluppare nuovi percorsi, più adattivi alle situazioni sociali (esterne alla coppia), individuali o relative allo stare insieme.

        La soluzione alla crisi di coppia non è necessariamente quella di dover cambiare partner, ma di rinegoziare la promessa per la quale ci si è uniti, dandole nuove sfumature e nuove direzioni. In questo senso, la crisi può essere intesa non solo come un’occasione di sofferenza e dispiacere ma anche come occasione di crescita e sviluppo.

        Un po’ come una crisalide che deve separarsi dal suo involucro per poter diventare una stupenda farfalla, anche la coppia deve mettersi in discussione, lasciarsi ciò che non le serve più per poter riscoprire la propria bellezza.

        Cosa può scatenare una crisi di coppia

        Non è semplice individuare la scintilla di una crisi di coppia, esistono diversi fattori che possono incidere.

        Quelli più comuni, ma non meno dolorosi, sono i fattori evolutivi.

        Ad esempio, è possibile che una coppia vada in crisi quando nasce un bambino, quando muoiono i genitori di uno dei partner, quando si ha una promozione a lavoro.

        Questo accade perché i membri della coppia hanno nuove funzioni da gestire e di cui prendere le misure, perciò potrebbe esserci un maggior investimento su altri aspetti a discapito della relazione di coppia.

        La percezione che hanno i partner in questo caso potrebbe essere quella di una pianta che vuole crescere ma alla base ha un vaso troppo stretto: le foglie e i rami si allargano, ma le radici hanno difficoltà a farsi spazio e a dare stabilità al tronco.

        Spesso in questi momenti gli individui che compongono la coppia possono sentirsi soli, incompresi, confusi, tristi e queste sensazioni se trascurate, e presenti in un contesto in cui anche la comunicazione è compromessa, potrebbero spingere verso la rottura della relazione di coppia, oltre che creare dei disagi ai figli.

        Agli eventi normativi appena illustrati, possono accompagnarsi anche un tipo di eventi chiamati “paranormativi” che possono indurre la coppia verso la crisi: ad esempio la morte di un figlio, aver perso la casa in seguito ad un cataclisma, un incidente stradale invalidante.

        In questi casi, le situazioni vissute sono così spiazzanti, improvvise che chiedere aiuto ad un professionista è sicuramente la scelta migliore da prendere, non tanto perché il professionista ha per loro una soluzione ma perché possa aiutare i partner a scoprire qual è la soluzione migliore per sé stessi e per la propria relazione. Una sorta di monitoraggio della riorganizzazione della coppia.

        Un esempio estremo: non è raro che quando muore un figlio, uno degli eventi più traumatici per un genitore, i partner tendano a non riuscire a gestire le emozioni che scaturiscono da questo trauma e si isolino nel proprio dolore anziché trovare la forza di condividerlo.

        Un evento simile implica uno shock ed un grave sgretolamento dei progetti familiari della coppia, che avrebbero bisogno di trovare uno spazio sicuro e protetto per esser recuperati, per far pace con l’impossibilità della realizzazione di alcuni sogni, e per poter ridefinire il progetto di coppia. 

        Quando la crisi di coppia coinvolge amici e figli

        Uno degli aspetti peggiori di una crisi di coppia trascurata sono gli effetti che ha sui figli e sulle relazioni sociali. Infatti, la crisi di coppia non resta circoscritta ai partner, ma influenza tutti i sottosistemi ad essa circostanti.

        I figli di genitori in crisi ad esempio, possono sviluppare dei sintomi come ansia, iperattività o comunque dei comportamenti che attirano l’attenzione dei genitori e li portino a dover intervenire, distogliendoli ulteriormente dalla loro crisi di coppia che di fatto rischia di rimanere in una situazione di stallo ed autoalimenta i disagi dei figli.

        Per questa ragione molto spesso i terapeuti che lavorano con i minori richiedono di lavorare anche con i genitori.

        La coppia in crisi può avere difficoltà anche a gestire la relazione con le proprie famiglie d’origine.

        Soprattutto quando le famiglie sono molto invadenti, quando i partner sono molto soggetti alle richieste emotive delle famiglie d’origine, oppure quando la famiglia d’origine è una grande assente per cui i partner cercano soddisfazioni di bisogni che la relazione di coppia non può soddisfare: in questi casi la crisi incontra particolari difficoltà a risolversi, prendendo spesso la piega di una maggior separazione tra i partner.

        Anche i rapporti con i propri amici possono compromettersi: tendendo ad evitare di uscire insieme, autoescludendosi dalla possibilità di un confronto e di un aiuto che potrebbe rivelarsi fondamentale. Gli amici sono un fattore di protezione molto importante, al punto tale che in alcuni tipi di terapia di coppia vengono convocati come “esperti” per sostenere e dare nuove prospettive alla coppia.

        Infatti, gli amici possono aiutare la coppia a diventare più consapevole della propria crisi e a trovare delle soluzioni per affrontarla.

        Gli amici sono una ricchezza per le coppie in crisi, che viene spesso sottovalutata.

        Il vantaggio del fidarsi degli amici sta nel fatto che non hanno le aspettative delle famiglie d’origine sui partner, sono legati a loro da un legame d’affetto e sono dei pari che vivono o hanno vissuto, gli stessi momenti evolutivi ma hanno probabilmente risorse diverse, che possono diventare fonte di arricchimento per i partner avviluppati sulla crisi. 

        Quando chiedere aiuto

        Come visto fin qui le crisi di coppia sono complesse, e un nuovo elemento a sostegno di ciò è che spesso per molto tempo la crisi agisce fuori dalla consapevolezza degli stessi partner.

        La notizia positiva è che superare la crisi senza separarsi è possibile, anche nelle situazioni più conflittuali. E’ vero che un buon numero di coppie non ha bisogno di particolari sostegni per superare la crisi.

        Diversi ingredienti entrano in gioco in questi casi: molto spesso, le coppie che riescono a superare le crisi sono quelle che tendenzialmente sono riuscite a preservare la relazione dalle influenze delle famiglie d’origine e a consolidare intorno a sé un confine che ne garantisce l’intimità e la fiducia.

        I partner di queste coppie inoltre sanno riconoscere le proprie emozioni, hanno una buona gestione della rabbia, sanno comunicare all’altro i propri bisogni e si trovano in una relazione in cui è possibile confrontarsi anche su temi dolorosi, hanno rispetto degli spazi individuali.

        Questi partner riescono con pazienza e impegno a superare la crisi perché sanno ravvivarla, trovano passioni da condividere, non hanno paura di lasciarsi alle spalle rancori e ma anche aspetti piacevoli della relazione.

        Tuttavia, ci sono delle situazioni particolari in cui le risorse dei partner e della coppia non bastano. Come accennato precedentemente le coppie possono trovare più difficoltà a superare la crisi quando è innescata da situazioni particolarmente traumatiche: alcune esperienze di vita, come quelle elencate precedentemente, la morte di un figlio, incidenti gravi, potrebbero far vacillare anche Ercole.

        In questi casi non basta essere assertivi, consapevoli e comunicativi. Si potrebbe rimanere così spiazzati e confusi, che per individuare cosa non sta funzionando potrebbe essere fondamentale ricorrere ad un professionista.

        Altre situazioni in cui affrontare la crisi potrebbe essere difficile da gestire è quando si confondono i livelli, e lo spazio della coppia è invaso da figli o genitori, perciò non c’è possibilità di confrontarsi perché i partner si muovono in margini di libertà troppo stretti: in questo caso la terapia di coppia potrebbe aiutare non solo a superare la crisi di coppia ma anche a riscoprire un senso di agency e di libertà individuale.

        Più in generale, il professionista con il suo intervento ha come obiettivo quello di aiutare i partner a comunicare, rinegoziare la promessa che la coppia si era fatta all’inizio della relazione e ritrovare quella relazione a due che si era persa.

        Intraprendere questo tipo di percorso è importante sia se i partner intendono ritrovarsi per proseguire insieme la relazione, sia per una separazione matura e consapevole.

        Chiedere aiuto quando si percepisce un senso di insoddisfazione nei confronti del partner, quando si percepisce di camminare su binari paralleli che non riescono ad incontrarsi, quando le litigate sono violente, cariche di rabbia ma non si riesce a frenarle non significa aver sbagliato, non poter recuperare.

        Spesso la crisi di coppia è percepita dalle persone come un fallimento che porta con sé sentimenti di impotenza, bassa autostima, delusione, tristezza e rabbia.

        Affidarsi ad un professionista non significa aver fallito, ma lavorare per migliorare, per superare il momento di sofferenza imparando qualcosa, dare una nuova occasione a se stessi e alla propria relazione di coppia.

        Riprendendo il significato di crisi come separazione illustrato del secondo paragrafo, rivolgersi ad un professionista significa prendere in mano ciò che c’è per separarlo da ciò che alla coppia non serve più per crescere, potare i rami secchi e comprare un vaso più grande per le radici.

        Guardare a questi sentimenti con coraggio non è semplice, ammettere di vivere una crisi fa paura, ma farlo ed accordarsi per iniziare a guardarsi davvero è il primo passo per poterla affrontare e superare. 

        Dott.ssa Alessia Pullano
        Psicologa e Psicoterapeuta

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          L’Importanza del Sesso nella Coppia

          In questo articolo analizzeremo l’importanza del sesso nella coppia.

          L’erotismo è una delle basi della conoscenza di sé, indispensabile quanto la poesia.

          Anaïs Nin

          Quante volte avete sentito dire che una coppia senza amore è pur sempre una coppia che funziona?

          Quante volte il sesso viene sottovalutato, come se fosse solo quel qualcosa in più, di cui si può fare tranquillamente a meno?

          Gli stereotipi a tal proposito sembrano essere davvero tanti:  eppure il sesso è un aspetto di grande importanza per la vita di una coppia, seppur spesso venga sottovalutato.

          Pensate che la maggior parte delle coppie arrivano a lasciarsi proprio per la mancanza di sesso: come mai?

          Semplice: le relazioni sessuali giocano un ruolo fondamentale affinchè una coppia possa davvero funzionare e a breve cercheremo di capire il perché.

          Ora soffermiamoci sul sesso e chiediamoci  “cos’è davvero?”

          Cosa presuppone? Cosa rappresenta per una coppia?

          E’ solo una questione fisica o attorno ruotano altri aspetti?

          Non ci resta che continuare a leggere per saperne di più.

          Sesso in una coppia: cosa rappresenta?

          Il sesso piace quasi a tutti e su questo non sembrano esserci dubbi: insomma dire questo è come affermare qualcosa di già detto, ridetto e risentito.

          Per questo oggi cercheremo di dare una lettura diversa del sesso: una lettura più profonda che vede il sesso  come una delle forme di comunicazioni più immediate e intime.

          Ebbene si: il sesso è anche questo, per chi non lo sapesse.

          E come può esserci intimità, se una coppia non vive una vita sessuale piena?

          D’altronde due persone che si amano davvero non possono non avvertire il desiderio di unirsi.

          Parliamo di un desiderio e  di una forza che non può che realizzarsi  se non attraverso la componente fisica.

          E quando questo non succede, non possono che esservi delle ripercussioni nella coppia.

          Il sesso, dunque, non va considerato solo nella sua accezione puramente fisica o come “la via necessaria per procreare”: come abbiamo detto il sesso è una forma di comunicazione e per questo possiamo dire fermamente che è anche attraverso la sua frequenza e/o la modalità con cui viene espletato,  che si può valutare la salute di una coppia.

          Come potrebbe essere altrimenti?

          Due persone che stanno insieme condividono momenti, emozioni : è naturale che venga a crearsi uno scambio di sensazioni che porta inevitabilmente a desiderare l’altro completamente.

          Quanto detto ci fa capire una cosa fondamentale: tutte le  coppie dovrebbero cercare di porsi questo obiettivo.

          Mantenere sempre elevato l’impulso sessuale

          Il sesso, d’altronde, non è solo qualcosa che si manifesta in maniera del tutto meccanica: noi nella sessualità esprimiamo il nostro mondo, i nostri sentimenti e anche un trasporto mentale.

          Solo in questi casi possiamo dire di essere in presenza di un rapporto di coppia sano, caratterizzato dunque da un coinvolgimento emotivo e mentale.

          In un rapporto di coppia sano l’amore, dunque, non è solo “una semplice parola”, ma un impegno e una continua costruzione, dove entrambi i coniugi non sono dei semplici spettatori.

          Nella coppia dunque il sesso non è solo divertimento, ma quel qualcosa in più che richiede un coinvolgimento profondo.

           Il sesso in una coppia richiede infatti questo:il confrontarsi su questioni emotive, intime, il rispetto dell’altro e di ciò che desidera.

          Tutto questo significa fidarsi:  può esistere una coppia senza fiducia?

          La risposta la lascio a voi!

          Il sesso in un rapporto di coppia: cosa ci dicono gli studi

          Insomma, da quanto appena detto si evince una gran bella verità:  affinchè un rapporto di coppia venga considerato “sano”, deve essere accompagnato da un desiderio sessuale e mentale.

          La coppia insomma deve poter essere e presupporre  la presenza di due ingredienti: il corpo e la mente.

          Questo. d’altronde, non fa altro che migliorare l’intimità e la complicità di una coppia e l’autostima di chi forma la coppia.

          Ma cosa ci dicono gli studi rispetto a questo argomento così tanto dibattuto e pieno di tabù, ancora oggi?

          Alcune ricerche sembrano parlare chiaro: sembra che i rapporti sessuali tendino a diminuire con l’avanzare dell’età e della relazione.

          Quanto detto non ci sembra così strano vero? 

          D’altronde se qualcuno che sta insieme da 50anni dovesse dirci di non fare più sesso con il proprio compagno da anni, la cosa non ci lascerebbe certo sorpresi.

          La cosa interessante però è che sembra che le coppie che hanno una miglior vita sessuale, siano quelle che comunicano e che condividono.

          Qualcuno di voi si starà chiedendo: “ ma se si sta insieme è naturale questo”.

          Invece no: sono molte le coppie che hanno problemi di comunicazione e questo alla fine non può che ripercuotersi anche a livello sessuale.

          Gli esperti di problemi di coppia affermano infatti che le coppie che non hanno rapporti sessuali, sono coppie infelici, che non sanno comunicare. Coppie frustrate.

          Non stupiamoci dunque se alcune ricerche hanno confermato che le coppie che non hanno una normale attività sessuale, arrivano a chiedere il divorzio.

          Qualcuno a questo punto si starà chiedendo “quando possiamo dire di essere in una relazione che  ha un’attività sessuale sana”?

          Diciamo che non c’è una risposta certa e che valga per tutti, poiché il sesso e l’importanza che gli viene data sono aspetti soggettivi.

          Ma per farci un’idea, possiamo comunque far riferimento ad uno studio dell’Università di Toronto,  pubblicato sulla rivista Society for Personality and Social Psychology, il quale afferma come una coppia “ sia perfetta da un punto di vista sessuale”, se intrattiene un rapporto a settimana.

          E voi? Vi ritrovate  o no in questo standard? 

          Se la risposta è negativa, niente paura: a breve cercheremo di capire cosa occorre fare per dare una  bella “spinta” al nostro rapporto sessuale  e non.

          Perché il sesso è importante nella coppia: cosa ci dicono gli psicologi

          Ma prima poniamoci una domanda a cui non possiamo non dare una risposta: perché in quanto individui che formano una coppia, abbiamo l’esigenza di unirci all’altro?

          Da un punto di visto psicologico, possiamo spiegare questa necessità facendo riferimento ad Abraham Maslow, psicologo statunitense e alla sua “piramide dei bisogni” , nella quale sono incluse tutte le nostre primarie e secondarie necessità. 

          Ma cerchiamo di capirne di più: all’ultimo gradino della piramide,  Maslow  ha inserito le necessità fisiologiche. 

          Tra queste, come sappiamo, rientrano il bere, il mangiare, il respirare.

          Ma anche il sesso:  Maslow infatti afferma come anche questo sia legato ad una necessità primaria  e all’istinto di conservazione.

          Secondo lo psicologo in questione, se non si soddisfano questi bisogni, difficilmente riusciremo a progredire e quindi a soddisfare quelli successivi, che riguardano la sicurezza, la stima e l’autorealizzazione.

          Quelli definiti esistenziali, insomma.

          Parlare di sesso e di amore sano e completo, ci porta inevitabilmente a citare anche Robert Stenberg: nella sua teoria dell’amore, il sesso è considerato necessario, poiché l’autore considera  l’amore come l’intreccio di alcuni ingredienti fondamentali.

          L’intimità, l’impegno e la passione. 

          Cosa succede se manca una di queste?

          Secondo l’autore non siamo in presenza di un amore completo.

          Nello specifico Stenberg afferma che un rapporto caratterizzato dall’assenza  del desiderio sessuale,  è solo un  rapporto d’amore-amicizia. 

          D’altronde se ci  pensiamo bene, il sesso non è quel qualcosa che rende la relazione di coppia, come tale?

          Consigli: come ri-accendere la fiamma della passione?

          A questo punto, capita l’importanza dell’aspetto sessuale per il funzionamento di una coppia, alcuni di voi si staranno facendo mille domande.

          Tra voi, magari ci sarà qualcuno che starà pensando:  “ma cosa si può fare per mantenere accesa la scintilla del desiderio?”

          Cerchiamo di affrontare meglio questo aspetto, facendo riferimento anche alla diversa importanza che ognuno di noi dà al sesso stesso.

          L’importanza dell’ascolto in una coppia

          In riferimento a quest’ultimo punto, occorre precisare che a prescindere da tutto, ogni coppia è un caso a sé e che dunque è naturale che si possa associare un’importanza diversa al sesso.

          Inoltre questa importanza negli anni non può che cambiare, perché i primi a cambiare nel e attraverso il tempo siamo proprio noi e il nostro rapporto.

          Detto questo, c’è solo una cosa che  dovremmo ricordare di  non fare: sottovalutare il sesso e il modo  in cui questo cambia nel tempo.

          Per riuscire a fare questo occorre comunicare e saperlo fare : dirsi tutto, ciò che  va e soprattutto ciò che non  va.

          Essenziale dunque e’ non smettere mai di conoscersi: d’altronde questo è un impegno che non ha una fine e che richiede costanza e tanta volontà, anche se si sta insieme da tempo. Soprattutto se si sta insieme da tempo.

          Non diamo dunque mai l’altro per scontato:  non diamo per  scontata la comunicazione, il sesso e la loro qualità.

          Non diamo mai per scontata la vita di coppia, semplicemente: occorre tenersi per mano e continuare a farlo, anche dopo anni insieme.

          Il miglior modo per tenersi per mano?

          Ascoltare  e ascoltarsi : è la prima cosa per essere felici in due e  soprattutto per continuare ad esserlo.

          Cosa nasconde il rifiuto per il sesso: cercare di andare oltre

          Spesso una coppia arriva a non fare più sesso, perché uno dei due arriva a provare  quasi un rifiuto per l’altro: in queste circostanze è naturale sentirsi umiliati, rifiutati e non desiderati.

          Se uno dei due partner per esempio ha voglia di fare sesso e l’altro trova mille scuse per rimandare, diciamoci la verità, un problema di fondo c’è.

          Ma il modo giusto per affrontare la situazione non è certamente quello di litigare o sentirsi in colpa.

          In questi casi è sempre meglio cercare di andare oltre, per capire cosa nasconde davvero questo rifiuto.

          Cosa occorre fare per andare oltre?

          Parlarsi: il segreto è sempre quello.

          Spesso dietro un rifiuto c’è solo un “non voler fare sesso in un determinato modo”. 

          Come si può sapere tutto questo se non ci si parla?

          Dunque la regola è sempre  questa: comunicare e conoscersi sempre meglio.

          Come dicono gli esperti, spesso non si fa del buon sesso perché non parliamo apertamente di ciò che ci piace e di ciò che non ci piace.

          Iniziare a farlo sarebbe davvero terapeutico per la coppia: è fondamentale sapere cosa piace o cosa non piace all’altro e altrettanto importante è sottolineare ciò che ci piace dell’altro.

          Solo così un rapporto di coppia può funzionare; solo così il sesso non sarà più un qualcosa da rimandare, ma un momento piacevole da vivere e rivivere.

          Prendersi cura di tutto, non solo a parole

          La comunicazione e l’ascolto sembrano essere alla base di tutto.

          Ma come possiamo “ben comunicare ciò che proviamo”?

          Prendendoci cura dell’altro, in ogni aspetto della relazione, chiarendo i problemi che esistono.

          Far finta che tutto vada bene non serve, anzi.

          In una coppia è necessario coccolarsi, ascoltarsi, essere presenti, supportarsi a vicenda e avere attenzione per la vita sessuale.

          D’altronde a che serve dirsi ti amo ed essere sempre più lontani emotivamente e fisicamente?

          Le più belle parole, non sono forse i fatti?

          Capire cosa può limitare il desiderio e fare qualcosa per risvegliarlo

          Come detto poco fa, l’importanza che diamo al sesso spesso cambia nel tempo, anche in base alla durata della relazione e all’età.

          Insomma, quando si è all’inizio, nella fase dell’innamoramento è naturale essere a 1000 e desiderare l’altro sempre e comunque.

          Con l’andare del tempo spesso questo viene a mancare: in un certo senso il livello di partecipazione può scendere e può capitare che ci si stacchi gradualmente, dal punto di vista sessuale, dal proprio compagno o dalla propria compagna, anche per motivi di salute.

          Ma non solo. Spesso ci si allontana sessualmente dal proprio compagno per altre ragioni o per altri problemi.

          Alcune volte il partner può sentirsi talmente trascurato o non accettato, che può arrivare a rifiutare di fare sesso quasi “per ripicca”.

          Spesso alla  base di un rifiuto c’è dunque semplicemente il bisogno di voler essere ascoltati, capiti, coccolati.

          In questi casi dovere della coppia è riuscire a  capire cosa può far risvegliare quel desiderio iniziale, ma soprattutto capire che è fondamentale prendersi del tempo per se stessi, per l’altro e per la propria intimità, la quale, come abbiamo visto, dipende molto anche dalla qualità della comunicazione che si intrattiene con l’altro.

          Cosa fare, dunque, concretamente? 

          Occorre abbandonare le proprie abitudini e fare leva sulla propria fantasia.

          Ebbene si: per nutrire il nostro desiderio sessuale ed eccitarci, non c’è miglior modo che affidarci alla nostra immaginazione e alla nostra fantasia e questo vale sia per le donne che per gli uomini.

          D’altronde nel rapporto di coppia, si è appunto in due : dunque è naturale “lavorare in due”.

          Rendete quindi l’erotismo una priorità :  seppur possa sembrare difficile trovare del tempo per se stessi,  non rinunciateci.

          Scrivere può rendere il tutto più semplice

          Arrivati fin qui state ripetendo a voi stessi che non ce la fate ad esternare tutto questo a parole?

          Tranquilli, la soluzione c’è: se non riuscite a parlare con il vostro compagno o la vostra compagna di ciò che riguarda l’aspetto sessuale o quello relazionale, non è la fine del mondo.

          Sapete perché?

          Perchè potete trovare un altro modo per farlo: scrivendo.

          Ebbene si: prendete una carta e una penna e provate  a buttar giù tutto quello che sentite e tutto quello che provate.

          Spiegate al vostro partner  cosa volete da lui, anche a livello sessuale.

          Grazie a questa lettera avrete la possibilità di aprirvi maggiormente al vostro compagno o alla vostra compagna. senza condizionamento alcuno.

          Avrete la possibilità di essere maggiormente onesti con voi stessi e non solo: insomma avere problemi dal punto di vista sessuale non è certo la fine della storia di una coppia.

          Tutti noi, chi prima chi dopo, possiamo trovarci a sperimentare dei problemi sotto questo punto di vista: l’importante è dirselo.

          Non chiudersi in se stessi e parlare.

          Alcuni studi, d’altronde, lo dicono chiaramente: parlare della propria sessualità (sexual communication) con il partner, è fondamentale per lo sviluppo e il mantenimento di una sana relazione sessuale (Masters & Masters, 1980).

          Riflessioni conclusive

          Il sesso è fondamentale in una coppia e non solo perché attraverso esso possiamo procreare e dare vita ad una nuova famiglia.

          Il sesso è importante perché è anche attraverso esso che possiamo misurare il funzionamento di una coppia.

          Capita spesso che dopo anni di fidanzamento o di matrimonio,  il coniuge finisca per non essere più considerato tale: le carezze iniziano ad essere sempre meno, gli incontri sessuali anche e il rapporto alla fine va in crisi.

          Come può essere altrimenti?

          Il sesso è parte integrante di un rapporto: seppur ognuno di noi abbia una propria concezione di sesso e del modo in cui farlo, c’è una cosa che non può che essere ricordata.

          Il sesso è fondamentale se vogliamo preservare il nostro rapporto: un rapporto senza sesso non è un  rapporto completo.

          E gli psicologi hanno ampiamente spiegato il perché attraverso le loro varie teorie dell’amore.

          E voi cosa ne pensate? 

          Anche voi pensate che il sesso sia importante o credete ad un amore senza sesso?

          Dott.ssa Alessia Pullano
          Psicologa e Psicoterapeuta

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            Eiaculazione Precoce

            In questo articolo analizzeremo l’eiaculazione precoce e i suoi risvolti psicologici.

            Per molti uomini la sfera delle disfunzioni sessuali rappresenta, ancor oggi, una tematica difficile da comunicare dato il profondo disagio che generano nell’individuo che ne è affetto.

            L’eiaculazione precoce rappresenta una problematica di natura sessuale che affligge il sesso maschile e si colloca al primo posto tra le disfunzioni sessuali riferite dagli uomini.

            Stando agli ultimi dati rilevati dalla Società Italiana di Urologia tale disturbo colpisce circa 4 milioni di uomini italiani per una stima del 20-30 % degli uomini tra i 18 e i 60. 

            Tuttavia si ipotizza che questo disturbo sia spesso sottostimato e sotto-diagnosticato ma rappresenta una problematica rilevante sia per gli aspetti fisici che per le sue conseguenze sul piano psicologico e relazionale.

            Cos’è l’eiaculazione precoce?

            L’eiaculazione precoce (PE) è una disfunzione sessuale specifica dei disturbi dell’orgasmo maschile ed è la patologia più frequentemente riportata dagli uomini in terapia.

            Il disturbo consiste in una risposta sessuale incontrollata e non voluta dal soggetto, caratterizzata dalla presenza di una persistente e/o ricorrente eiaculazione conseguente ad una stimolazione sessuale anche minima avvenuta prima, durante o poco dopo la penetrazione. 

            Per fare un esempio possiamo notare che mentre un rapporto sessuale “normale” ha una durata di circa 6-7 minuti tra l’atto di penetrazione e l’orgasmo, l’International Society for Sexual Medicine ha definito che si può parlare di eiaculazione precoce quando la durata del rapporto è inferiore ai 2-3 minuti, per le forme più lievi, ed inferiore ad un minuto per le forme più gravi, associata all’incapacità del soggetto di ritardare l’eiaculazione e diverse conseguenze sul piano psicologico quali senso di frustrazione, di sofferenza, ansia, condotte di rifiuto del lato sessuale e difficoltà relazionali. 

            Possono esistere diverse forme del disturbo quali le forme cosiddette assolute, nel caso in cui l’eiaculazione precoce si verifichi in ogni situazione ed con qualsiasi partner, e le forme relative o relazionali, nelle quali la precocità si verifica solo in alcune particolari occasioni o con specifici partner.

            E possibile inoltre identificare altre tipologie in base al momento in cui avviene l’eiaculazione: nel caso in cui si verifichi prima della penetrazione si tratterà infatti di ejaculatio praecox ante portam o si parla di ejaculatio praecox intra moenia nei casi in cui avviene in seguito alla penetrazione, ed ancora in base alla presenza o meno di altre malattie per cui si parlerà di EP semplice in assenza di disfunzioni sessuali o EP complessa se sono presenti disfunzioni di altro tipo. 

            Quali sono le cause da cui genera l’eiaculazione precoce?

            Nel corso del tempo gli studi effettuati sull’eiaculazione precoce hanno evidenziato diverse possibili spiegazioni alla nascita ed evoluzione di questo disturbo.

            A livello generale però è possibile suddividere le cause in due principali categorie: le cause organiche o fisiche di competenza dell’urologo e le cause di tipo psicologico di competenza del sessuologo. 

            Spesso però l’eiaculazione precoce è frutto della combinazione di entrambe questi aspetti, rendendone più difficile il trattamento. 

            Cause fisiche e organiche

            Le cause di tipo organico possono essere molteplici e pertanto la valutazione del disturbo richiede una valutazione complessa e che analizzi vari aspetti quali le funzionalità anatomiche, endocrine e fisiologiche, neurologiche, infettive, urologiche, iatrogene e così via. 

            Tuttavia possiamo identificare alcune cause principali che possiamo così suddividere in:  

            • Cause endocrine: dovute a patologie endocrine quali ipergonadismo maschile, ipertiroidismo, iperprolattinemia e diabete mellito.
            • Cause genetiche: un’alterazione genetica nel polimorfismo genetico del gene di trasporto del ricaptatore della serotonina (5-HT) può determinare una predisposizione all’eiaculazione precoce. Infatti la serotonina e il sistema serotoninergico giocano un ruolo chiave nei processi di controllo e modulazione del riflesso eiaculatorio. In tal senso, gli studi mostrano come nei soggetti con EP siano presenti livelli più bassi di 5-HT. 
            • Cause urologiche e genito-urinarie: dovute principalmente a patologie quali prostatiti, prostato-vescicoliti, uretriti ma anche malattie veneree quali HIV, gonorrea, clamidia, sifilide, infezioni batteriche, infezioni da trichomonas e infezioni funginee. 
            • Cause Urologiche: dovute a patologie organo-terminali quali la fimosi o il frenulo corto del prepuzio.
            • Cause Neurologiche: dovute alla presenza di patologie quali la sclerosi multipla, la spina bifida, tumori della corda spinale, neuropatie periferiche, processi espansivi midollari in grado di alterare i meccanismi anatomo-funzionali dell’eiaculazione. 
            • Cause Iatrogene: dovute all’assunzione di amfetamine, agonisti dopaminergici e agonisti adrenergici. Il sistema dopaminergico infatti ha un ruolo fondamentale nel facilitare il riflesso eiaculatorio mentre gli androgeni hanno un ruolo regolatorio stimolante e sono fondamentali per i processi di attivazione neurale del midollo spinale lombo-sacrale determinante per il controllo dell’erezione e dell’eiaculazione. 
            • Cause voluttuarie: l’assunzione e/o l’abuso di particolari farmaci (fenotiazine, simpaticomimetici, anti-mao,) o sostanze (es. cocaina, alcol) determinano un’alterazione dei processi di controllo e madiazione interferendo con le varie fasi del rapporto quali emissione, eiaculazione ed orgasmo.   
            • Cause Psiconeuroendocrine: dovute ad alterazioni dei meccanismi ormonali (es. alterazioni nel sistema serotoninergico, alterazioni nei livelli di testosterone), alterazioni riflessogene (es. disturbi muscolo-tensivi a carico del pavimento pelvico, ai muscoli dei bulbi cavernosi o ad iperreflessività peniena), alterazioni di tipo neurologico (es. alterazioni nel tempo di latenza o nella conduzione dello stimolo nervoso) o ad alterazioni di tipo vascolare. 

            Cause psicologiche

            L’aspetto psicologico, in una patologia come l’eiaculazione precoce, gioca un ruolo fondamentale poiché i disturbi della sfera sessuale spesso possono essere determinati, in assenza di cause mediche, dalla presenza di particolari situazioni a livello mentale.

            In questa prospettiva, l’ansia legata al disturbo costituisce un sintomo di un disagio profondo che emerge nel momento cruciale del rapporto sessuale che può derivare dal timore del confronto con il partner, dalle aspettative, dai traumi sofferti in precedenza o nella prima infanzia, da una latente ostilità per la donna, dalle prime esperienze sessuali, dalla paura del rifiuto, dalla preoccupazione per le reazioni del partner e così via.  

            Già Freud aveva ipotizzato come l’eiaculazione precoce nell’uomo potesse derivare da “pulsioni sadiche, intense e inconsce dell’uomo nei confronti della donna”: secondo il suo pensiero infatti tali pulsioni rappresenterebbero dei sentimenti e delle emozioni che sono innati ed inconsci e che vanno oltre la volontà maschile e, attraverso l’eiaculazione precoce l’uomo punirebbe la donna privandola del suo piacere fisico. 

            Tuttavia, indipendentemente da Freud, nel corso del tempo sono stati identificati diversi altri fattori di natura psicologica che sono in grado di generare l’eiaculazione precoce. 

            Un primo fattore sembra essere legato alla giovane età: diversi studi hanno infatti dimostrato come molti uomini tendano a vivere le prime esperienze sessuali con nervosismo e rapidità spesso dovute al vivere l’esperienza in contesti con poca privacy, con l’ansia di esser scoperti e così via. 

            Un altro fattore è rappresentato dalla attività sessuale in sé quando risulta essere associata ad avere scarsa esperienza nell’atto sessuale e/o ad una bassa frequenza di rapporti. In altri casi può manifestarsi una difficoltà a gestire la novità del rapporto

            Particolarmente rilevante, nel caso di eiaculazione precoce, risultano essere l’ansia da prestazione, lo stress e la depressione.

            Condizioni come queste, influendo direttamente sul sistema nervoso compromettendo anche la sfera sessuale e le capacità di controllo del sistema eiaculatorio.

            Alti livelli di ansia sembrano essere associati a particolari pensieri – riguardanti la performance, l’adeguatezza sessuale e così via – e sono in grado di distrarre l’uomo nel corso del rapporto sessuale impedendone il monitoraggio del suo livello di attivazione e di rendersi conto delle sensazioni che precedono l’eiaculazione. 

            Così come l’ansia, anche lo stress risulta giocare un ruolo fondamentale nel determinare tale disturbo: i fattori stressanti possono essere molteplici e possono essere suddivisi in due categorie detti stress esterni (es. preoccupazioni per problematiche di salute, economiche, lutto, difficoltà lavorative, etc) e stress interni (es. modalità di pensiero ed interpretazione delle situazioni, incapacità di gestire i problemi, etc). 

            Quali sono i risvolti psicologici dell’eiaculazione precoce?

            L’eiaculazione precoce non si concretizza unicamente come disturbo di tipo fisico ma genera un grado di sofferenza e disagio tale da complicare la vita individuale e relazionale dell’individuo che ne è affetto. 

            Come già accennato nel paragrafo precedente, il disturbo genera nell’individuo un disagio profondo e frustrante che porta ad una totale e negativa modificazione dell’esperienza sessuale.

            Essa si allontana dall’idea del piacere per essere vissuta come un’esperienza traumatica ed insoddisfacente. 

            Grazie ad alcuni studi è stato possibile analizzare nel dettaglio il grado di qualità della vita dei soggetti con eiaculazione precoce ed è stato rilevato che in questi uomini, rispetto ad altri uomini non affetti, sono presenti livelli di stress più alti, bassa autostima, funzionamento sessuale più scarso ed in generale una più bassa qualità di vita.

            Altre differenze sono emerse nel caso di uomini single in cui sono stati rilevati anche sentimenti di imbarazzo legati al disturbo tali da rinunciare al corteggiamento di nuovi partner.

            I sentimenti di vergogna e imbarazzo inoltre, da un punto di vista psicologico, possono condurre nel tempo a sviluppare una disfunzione erettile. 

            Le conseguenze negative dell’eiaculazione precoce però non intaccano solo il piano individuale del soggetto ma generano un profondo impatto anche sul partner e sulla vita di coppia. 

            Quando una coppia si trova ad affrontare un disturbo simile si trova in una situazione in cui i due partner perdono la loro sincronia e, anche se l’attività sessuale permane, la qualità del rapporto peggiora o viene meno.

            Il partner infatti può manifestare un senso di delusione e/o frustrazione dovuta al fatto che l’altro raggiunga molto prima l’orgasmo mentre il partner affetto dal disturbo prova emozioni negative nonostante l’orgasmo.

            La vita sessuale cambia e si trasforma in nuovi significati che generano una separazione tra i partner ed una maggiore conflittualità. 

            È stato osservato inoltre come anche le donne legate a uomini con EP subiscano una modificazione nella sfera della sessualità; infatti è emerso un peggioramento sul piano del desiderio sessuale, sulla lubrificazione e sulla soddisfazione al momento dell’orgasmo fino a manifestare, in alcuni casi, delle proprie disfunzioni sessuali femminili quali anorgasmia, riduzione del desiderio sessuale, vaginismo, disturbi dell’eccitazione e così via.  

            Quando rivolgersi al medico ?

            Sebbene resti ancora molto da comprendere su questo disturbo esistono dei criteri ben precisi al fine di inquadrare e diagnosticare correttamente l’eiaculazione precoce. 

            La definizione più utilizzata oggi in ambito clinico è quella indicata dall’American Psychiatric Association che definisce l’eiaculazione precoce come una modalità persistente o ricorrente di eiaculazione precoce che si verifica durante i rapporti sessuali, circa un minuto conseguente alla penetrazione vaginale e prima che l’uomo lo desideri.

            Sono stati inclusi dei criteri anche per i rapporti non intravaginali. Tali sintomi devono, inoltre, essere presenti per almeno sei mesi e devono manifestarsi in tutte o quasi tutte le attività sessuali (almeno il 75 %). 

            Ed ancora, i sintomi devono causare nell’individuo un disagio clinicamente significativo tanto da modificarne negativamente la qualità della vita.

            Il disturbo genera infatti nell’uomo un senso di vergogna, di timore, di inadeguatezza e di umiliazione e condiziona anche la percezione del rapporto sessuale, il quale diventa un’occasione di preoccupazione e insoddisfazione. 

            Occorre poi fare ulteriori distinzioni per risalire al tipo di eiaculazione precoce manifestata: i criteri chiedono infatti di specificare se il disturbo sia permanente, e quindi se il disturbo sia presente fin dall’inizio dell’attività sessuale, o se sia acquisita, nel caso in cui il disturbo sia iniziato dopo un periodo di funzionamento sessuale normale.

            Ed ancora occorre verificare se sia una forma generalizzata, che accade con ogni partner e in ogni situazione, o sia una forma situazionale nel caso in cui il disturbo si verifichi solo in particolari circostante, partner o tipi di stimolazione.

            Infine occorre identificare il grado di gravità del disturbo: si intende di grado lieve quando l’eiaculazione avviene entro 30-60 secondi dopo la penetrazione vaginale, di grado moderato quando si verifica entro 15-30 secondi dopo la penetrazione e di grado grave quando si verifica prima dell’attività sessuale, all’inizio o entro 15 secondi dalla penetrazione. 

            I fattori da considerare per una corretta diagnosi di eiaculazione precoce sono molteplici e richiedono un’attenta analisi multidisciplinare che tenga conto dei tanti aspetti coinvolti. L’indagine viene effettuata attraverso un approfondito colloquio sulla problematica e sulle manifestazione in aggiunta a specifici accertamenti medici.

            Come intervenire ?

            L’eiaculazione precoce, come abbiamo visto determina una profonda modificazione del proprio vissuto sessuale sia nell’uomo che lo vive che nel rapporto con il partner ma è un problema risolvibile? 

            Spesso viene vissuto come un problema catastrofico e non risolvibile, tuttavia esistono diversi trattamenti possibili, che approfondiremo tra poco, in grado di attenuare o risolvere totalmente il problema. 

            Sebbene per ogni uomo il disturbo si strutturi su specifiche problematiche, possiamo tuttavia identificare alcuni tipi di trattamento principali: le terapie farmacologiche e i trattamenti di tipo psicologico e comportamentale. 

            Le terapie farmacologiche prevede l’utilizzo di specifici farmaci finalizzati alla correzione delle tempistiche di eiaculazione durante il rapporto.

            Dal momento che l’eiaculazione precoce risulta associata a particolari deficit funzionali di alcuni neurotrasmettitori, tra cui la serotonina, un farmaco che sia capace di interagire con questa sostanza è in grado di prolungare il rapporto e, di conseguenza, posticipare l’orgasmo dell’uomo.

            A tal fine sono state isolate due sostanze principali, la paroxetina e la fluoxetina, utilizzate come terapie di lunga durata (fino a sei mesi) e man mano riequilibrate nel corso della terapia dal medico.

            Questo tipo di terapia ha un effetto praticamente immediato e permette numerosi miglioramenti nella qualità di vita dell’uomo sebbene l’abuso di queste sostanze possa generare importanti stati ansiosi. 

            In alternativa a questi due farmaci, sono utilizzate anche le sostanze vasoattive (es. Viagra) destinate unicamente alle forme di eiaculazione precoce particolarmente gravi o alcuni anestetici locali (es. lidocaina) destinati ai casi di ipersensibilità del glande. 

            Nonostante l’efficacia dei farmaci risulti confermata, il loro utilizzo agisce esclusivamente sul piano organico e non è sufficiente a risolvere il problema nella sua globalità; pertanto, per essere efficace a lungo termine, deve essere associato anche ad un intervento di tipo psicologico/psicoterapeutico che ne riduca l’impatto sia sull’individuo che sulla coppia. 

            Dott.ssa Alessia Pullano
            Psicologa e Psicoterapeuta

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              DOC: Disturbo Ossessivo Compulsivo

              Avete mai sentito parlare del disturbo ossessivo compulsivo?

              Questo risulta essere un disturbo che esordisce generalmente in età adolescenziale e che si manifesta attraverso la presenza di ossessioni  e compulsioni, che come vedremo, altro non sono che i sintomi di questo disturbo.

              Cosa sono nello specifico le ossessioni e le compulsioni? Perché si può essere affetti da tale disturbo?  Chi viene colpito maggiormente?

              Cosa occorre fare per gestirlo?

              Qui di seguito cercheremo di rispondere a tutte queste domande. 

              Iniziamo però dalla domanda base: cos’è il disturbo ossessivo-compulsivo?

              Non ci resta che continuare a leggere per scoprire cosa si nasconde dietro questa espressione.

              Disturbo ossessivo-compulsivo: di cosa stiamo parlando?

              Secondo la classificazione del DSM 5, il Manuale Diagnostico dei disturbi mentali, il disturbo ossessivo compulsivo, conosciuto anche come DOC, è un disturbo psichiatrico che si caratterizza, come si può ben evincere dal nome stesso,  per la presenza di ossessioni e/o compulsioni.

              Sembra infatti che circa l’80% dei pazienti ossessivi sperimenti sia ossessioni che compulsioni.

               La restante parte sembra avere o solo ossessioni o solo compulsioni.

              A questo punto vi starete chiedendo cosa siano le ossessioni e le compulsioni. 

              Soddisfiamo immediatamente la vostra curiosità.

              Ossessioni e Compulsioni: cosa sono

              Iniziamo dalle ossessioni: chi non ne ha mai avuta una? 

              Chi non ha mai utilizzato espressioni del tipo “sei ossessionato da quella donna” o “questo lavoro è diventato un’ossessione”?

              Chi più, chi meno, tutti ci siamo ritrovati almeno una volta nella vita a dire la parola “ossessione”, in riferimento a situazioni in cui si avevano dei pensieri persistenti circa una persona x o una situazione x.

               Ma quanti sanno davvero cosa siano le ossessioni?

              In psicologia, queste risultano essere dei pensieri fissi e irrazionali che tendono a presentarsi costantemente e ripetutamente nella mente.

              Possiamo dunque dire come  le ossessioni  siano delle idee, degli impulsi o delle immagini che vengono percepiti come intrusivi, poiché si ha la sensazione che arrivino improvvisamente, senza che si possa fare nulla per controllarli.

              Per questo sono anche fastidiosi, dal momento che appunto, provocano disagio e malessere.

              Abbiamo parlato anche di irrazionalità: perché?

              Perché chi le sperimenta ha proprio la sensazione che siano un qualcosa di irrazionale e privo di significato.

              Le compulsioni, invece, cosa sono? 

              Sono dei gesti  o delle azioni che il soggetto mette in atto come risposta alle ossessioni, con il fine ultimo di gestire l’ansia sperimentata.

              Quando parliamo  di compulsioni, parliamo dunque di veri e propri rituali di pensiero, messi in atto per ridurre o meglio controllare l’ossessione:  questi infatti solitamente sono seguiti da un senso di sollievo, seppur temporaneo.

              Esordio e prevalenza del DOC

              Da quanto detto si evince come dunque l’attività ossessiva sia ripetitiva, frequente e persistente.

              Ma quando si presenta questo disturbo? Chi colpisce maggiormente?

              Questo è un disturbo che può presentarsi sia nell’infanzia che nell’età adulta, anche se nella maggior parte dei casi i primi sintomi sembrano manifestarsi  precocemente, soprattutto nei maschi.

              Questo disturbo sembra colpire circa il 2% della popolazione generale: in Italia, pensate, sono circa 800.000 le persone colpite.

              A tal proposito c’è da dire però che spesso chi soffre di doc, soffre anche di altri disturbi,  come quello d’ansia o da attacchi di panico.

              Tipologie di DOC

              Insomma il Doc è un disturbo che presenta delle caratteristiche principali, ma può esprimersi in modo diverso, a seconda della natura delle ossessioni e delle compulsioni manifestate.

              A tal proposito possiamo individuare sei tipologie di doc: vediamole qui di seguito.

              Disturbo ossessivo-compulsivo da controllo

              Cosa caratterizza principalmente questo specifico disturbo?

              La paura di poter far male a se stessi o agli altri: per questo chi ne è affetto per placare la sua ansia, arriva a mettere in atto dei rituali al fine  di controllare la situazione.

              Esempio: controllare di aver chiuso il gas.

              Disturbo ossessivo compulsivo da ordine

              Questo specifico disturbo  si caratterizza per l’ansia che si prova nel momento in cui si avverte che le cose non rispettano un determinato criterio di ordine, perfezione e simmetria e di conseguenza si mettono in atto una serie di rituali  che hanno appunto lo scopo di ordinare.

              Esempio: ordinare secondo uno specifico criterio i libri sulla libreria.

              Disturbo ossessivo – compulsivo da superstizione

              In questo specifico disturbo si parla di un’ansia legata a specifiche credenze e superstizioni: cosa intendiamo dire con quanto detto?

              Che chi ne è affetto crede che ritrovarsi, per esempio, a sentire determinate cose può  portare “male” a sé  e ai propri familiari.

              Per questo vengono messi in atto delle azioni, al fine di neutralizzare il peggio.

              Esempio: ripetere mentalmente una serie di parole.

              Disturbo ossessivo-compulsivo da contaminazione

              La persona affetta da questo specifico disturbo avverte un senso di malessere e angoscia al sol pensiero di potersi ritrovare a contatto con oggetti o situazioni che possono contaminarla (polvere, urina, etc).

              Proprio per questo si arriva a privilegiare il loro evitamento e la messa in atto di una serie di rituali finalizzati ad una pulizia impeccabile.

              Esempio: sterilizzazione di oggetti o vestiti.

              Disturbo ossessivo-compulsivo da accumulo

              Cosa sappiamo di questo specifico disturbo?

               La persona affetta tende ad accumulare grandi quantità di oggetti, spesse volte inutili, provando di conseguenza ansia al sol pensiero di doversene liberare.

              Alla base di tutto sembra esserci la convinzione che questi oggetti  possano essere successivamente utili.

              Per questo si finisce per  riempire la casa di suppellettili.

              Ossessioni  di tipo religioso, sessuale, aggressivo

              In questo caso specifico siamo in presenza di ossessioni non necessariamente accompagnate da compulsioni e che  portano il soggetto che le sperimenta a porsi mille domande e rimuginii.

              Queste possono essere ossessioni di diversa natura: sessuale, religioso.

              Il soggetto potrebbe per esempio avere dubbi sulla propria sessualità  o timore di poter aggredire qualcuno o di commettere atti blasfemi.

              Di conseguenza possono essere messi in atto comportamenti di evitamento: chi per esempio ha paura di far  male a qualcuno, tenderò ad evitare di utilizzare per esempio coltelli.

              Diagnosi del DOC

              I sintomi principali del Doc sono le ossessioni e le relative compulsioni.

              Tra le ossessioni più comuni, vi sono la paura dello sporco, la paura di perdere il controllo, quelle che riguardano l’ordine e la simmetria, vari pensieri di tipo blasfemo, la paura della contaminazione.

              Tra le compulsioni più frequenti abbiamo il pulirsi frequentemente, il mettere in ordine i propri oggetti mantenendo rigidi schemi.

              Una domanda sorge spontanea a questo punto: come si arriva a fare una diagnosi di tale disturbo? 

              Quando un soggetto può dire di avere un disturbo ossessivo-compulsivo e non delle semplici ossessioni?

              Secondo il DSM-IV, per poter fare una diagnosi di Doc occorre tenere in considerazione i seguenti criteri diagnostici:

              • La presenza di ossessioni o compulsioni o entrambe.
              • Le ossessioni e le compulsioni sono causa di grave perdita di tempo durante la giornata e minano il normale funzionamento sociale, relazionale e psicologico dell’individuo.
              • I sintomi ossessivo-compulsivi non sono attribuibili  agli effetti fisiologici di una sostanza o di altra condizione medica.
              • Il disturbo non è meglio giustificato da sintomi di altri disturbi mentali. ( DSM-IV).

              DOC: cosa c’è dietro?

              Sulle cause del disturbo che stiamo trattando non sembra esserci una grande letteratura.

              Dal punto di visto psicologico però sembrano esserci delle evidenze che affermano come alla base ci possano essere delle esperienze negative vissute in passato.

              Tra i fattori di rischio per l’insorgenza di tale disturbo sembrano esserci alcuni elementi, come un elevato senso di responsabilità o sentimenti di colpa, spesso dovuti ad un’educazione troppo severa o rigida, caratterizzata da punizioni esagerate.

              Questi fattori sembrano ricoprire un ruolo centrale per quanto riguarda l’insorgenza del Doc.

              Secondo le teorie di natura cognitiva,  alla base dei pensieri ossessivi sembra esserci il modo in cui i soggetti si relazionano con i loro pensieri.

              Cosa significa quanto detto? 

              Che nello specifico chi manifesta pensieri intrusivi, ovvero le ossessioni, mostra un’eccessiva preoccupazione riguardo la natura dei propri pensieri, facendo fatica a cogliere quella che è la differenza tra un pensiero e una vera azione.

              Secondo questa teoria, questo errore cognitivo, definito fusione-pensiero-azione (Berle & Starcevic, 2005) sarebbe una delle principali cause del disturbo.

              Ma la questione non si chiude certo qui: oltre alle cause di natura psicologica appena viste, sembrano esservi anche della cause di natura biologica.

              Da alcuni studi effettuati su gemelli omozigoti ed eterozigoti si è evinto come alla base del disturbo possa esservi anche una predisposizione genetica.

              Inoltre da altri studi condotti su famiglie di pazienti con doc, è stato evidenziato come i familiari abbiano un alto e maggior rischio di svilupparlo, rispetto alla restante popolazione.

              Il decorso e varie ripercussioni del Disturbo Ossessivo Compulsivo 

              Il decorso ossessivo compulsivo tende a cronicizzarsi,  con fasi però  di miglioramento che si alternano a fasi di peggioramento.

              L’esordio del disturbo è perlopiù in età giovanile: colpisce dunque maggiormente persone giovani, con una lunga  aspettativa di vita, quindi.

              Questo però non significa che non ci siano delle conseguenze importanti:  proprio perché i soggetti hanno un’età giovane, spesso sono impossibilitati a vivere una vita “normale”,  arrivando a compromettere diversi ambiti della loro vita, come  lo studio, il lavoro e una probabile relazione.

              Non stupiamoci dunque se chi ha il doc, spesso arriva a rinunciare a  diplomarsi o laurearsi.

              In un certo senso possiamo dire che il doc può  mettere a rischio la propria realizzazione personale e lavorativa e anche la propria sfera relazionale, amicale.

              Secondo alcuni dati sembrerebbe che la metà dei pazienti affetti da doc non riesca a far durare un rapporto di coppia.

              Le conseguenze, però, possono poter riguardare anche la famiglia dei pazienti: in che senso? 

              I soggetti con doc possono poter presentare sintomi così pervasivi tanto da diventare invalidanti non solo per se stessi, ma anche per il funzionamento della propria famiglia.

              Facciamo un esempio concreto: spesso per riuscire a contenere il disagio di un congiunto con Doc, un familiare  può arrivare, sentendosi costretto da un punto di vista emotivo, ad assecondarlo, mettendo  in atto quei rituali tipici dei disturbo.

              Ciò con l’andar del tempo non può che portare a delle conseguenze in termini di qualità di vita, non solo per il paziente, ma anche per chi gli sta intorno.

              Consigli e Strategie per gestire il DOC

              Sicuramente la persona affetta da doc deve essere seguita da un professionista per poter intraprendere una terapia adeguata.

              Ma ci sono dei consigli che un affetto di Doc può seguire? Certo che si e a breve cercheremo di vederne alcuni.

              Proprio perché la famiglia è parte integrante di tutto questo, cercheremo di dare dei piccoli suggerimenti utili a chi appunto si ritrova a dover “gestire” un soggetto con un disturbo ossessivo compulsivo.

              Iniziamo con i consigli utili ai soggetti con il doc.

              Consigli per chi ha un disturbo ossessivo compulsivo

              •  Impariamo a smettere di evitare: come abbiamo visto,chi arriva a sperimentare delle ossessioni, di conseguenza arriva a mettere in atto delle azioni. Spesso però le stesse possono risultare così estenuanti, che il soggetto, come auto-difesa, può arrivare ad evitare tutte  quelle situazioni che potrebbero innescare le compulsioni stesse.

              Questo è sbagliato. Seppur in un  primo momento l’evitamento sembri portare a provare  una sensazione di sollievo, a lungo andare porta solo alla creazione di un circolo vizioso da cui può poter essere difficile uscire.

              A tal proposito è importante “evitare di evitare”, poiché evitando una situazione, non farete altro che alimentare le vostre ansie  e il vostro problema.

              • Riportate su un foglio i vostri pensieri: avete spesso e volentieri dei dubbi rispetto ad un gesto che avete compiuto ?

              Vi chiedete spesso se avete chiuso il gas o se avete lasciato tutto in ordine? Bene, prendete carta e penna e mettere tutto bianco su nero.

              Provate  insomma a stilare una lista, riportando quelli che sono  i vostri pensieri più ricorrenti o i vostri dubbi seguiti dalle relative risposte. 

              Non  potrete che appurare come ciò possa regalarvi grande sollievo.

              La scrittura d’altronde ha un grande potere terapeutico.

              Perché non provare?

              Consigli per la famiglia

              Ora proviamo a dare qualche suggerimento a chi è vicino a chi è affetto da doc.  Cosa può fare un familiare per gestire un parente con doc?

              • Non date spiegazioni: se avete di fronte vostro marito che manifesta pensieri ossessivi e comportamenti compulsivi, non tentate di spiegargli quanto questi siano irrazionali o senza fondamenta.

              Tutto questo non può che contribuire a incrementare il tutto, ma soprattutto verrebbe meno la fiducia nei vostri confronti.

              Insomma, evitate di convincere un soggetto con il doc dell’infondatezza delle sue ossessioni e compulsioni. E’ inutile!

              • Evitare di aiutare in modo sbagliato: poco fa abbiamo detto che spesso i familiari tendono ad assecondare un parente con il doc, trovandosi coinvolti nei loro stessi rituali. Seppur si abbiano delle buone intenzioni, questo non  allevia ala sofferenza della persona, anzi, la peggiora. Evitate dunque di “aiutarla” in questo modo, ma nello stesso tempo non fomentate sensi di colpa.
              •  Mettere in risalto eventuali cambiamenti: come abbiamo visto chi soffre di doc sperimenta ossessioni e compulsioni e questo può poter essere davvero invalidante. Chi ha questo disturbo tenta con tutte le sue forze, per quanto possibile, di uscirne. Spesso questo è motivo di ulteriore sofferenza, perché i risultati arrivano in modo lento. Per questo è fondamentale che i familiari sostengano ogni minio  cambiamento positivo, ogni piccolo passo in avanti fatto.

              Questi sono soggetti che hanno bisogno di essere incoraggiati, soprattutto nei periodi di ricaduta.

              La parola d’ordine? Supporto!

              Riflessioni conclusive

              Insomma il Doc è un disturbo che può essere davvero invalidante per chi ne soffre e per chi sta intorno a chi ne soffre.

              Come abbiamo visto è caratterizzato dalla presenza di ossessioni e compulsioni: queste ultime sicuramente aiutano la persone affette ad avvertire una sensazione di controllo.

              Ma parliamo di un apparente controllo e l’abbiamo ampiamente visto, poiché così facendo non si fa altro che contribuire alla formazione di credenze errate secondo cui potranno essere allontanate le proprie ansie, se vengono messi in atto degli specifici rituali.

              Ovviamente questa è solo un’illusione e spesso per arrivare a rendersene conto è necessario rivolgersi ad un professionista.

              D’altronde, questo disturbo, come altri, presuppone sempre una cosa fondamentale: prendersi cura di se stessi.

              E  voi, amate prendervi cura di voi?

              Dott.ssa Alessia Pullano
              Psicologa e Psicoterapeuta

              Hai bisogno di una consulenza?




                Divorzio: Quali Problemi Affrontano i Figli

                In questo articolo analizziamo i problemi psicologici che affrontano i figli durante un divorzio.

                Alcuni autori nello specifico suggeriscono che il modo con il quale i bambini si adattano alla separazione dei genitori dipende per lo più da come i genitori stessi gestiscono questo processo 

                (Emery e Forehand,1994)

                Spesso, quando si parla di divorzio, alcune tematiche restano in secondo piano.

                Insomma capita sempre più spesso di sentir parlare di questioni che riguardano la coppia, come la relazione che si riesce ad instaurare tra i due partner oppure di tutte le questioni economiche che, inevitabilmente, il divorzio riporta a galla.

                Il momento del divorzio, però, non interessa soltanto la coppia che, quindi, decide in modo più o meno consensuale di terminare la propria relazione; questo momento interessa tutto il nucleo familiare e, quindi anche i figli, i quali si ritrovano ad esserne ampiamente coinvolti.

                Come potrebbe essere altrimenti!

                Ma quali sono i problemi che affrontano i figli durante questa fase? E soprattutto come possono gli adulti aiutare i figli ad affrontarli? 

                Oggi cercheremo di mettere in risalto tutto questo, poiché è fondamentale capire quanto i genitori possano realmente fare la differenza in queste situazioni.

                D’altronde la salute mentale e fisica dei figli dipende dal modo in cui gli adulti gestiscono questa fase di cambiamento. 

                Continuiamo a leggere, quindi, per saperne di più.

                Divorzio: quanto impatta sui figli?

                Come già abbiamo accennato, quando una coppia decide di lasciarsi, tutto il nucleo familiare è interessato; questo perché, ovviamente, si tratta di un cambiamento che non riguarda soltanto la coppia ma anche, e soprattutto, la famiglia.

                Spesso coloro che soffrono maggiormente per questa situazione sono proprio i figli che, ancora più spesso, vengono trascurati e poco considerati.

                Con questo ovviamente non si vuol dire che i genitori non facciano bene a lasciarsi nel momento in cui si rendono che le cose non vanno più bene o, semplicemente, quando l’amore finisce; anzi, è esattamente il contrario.

                 Vivere in un ambiente conflittuale e poco sereno sicuramente ha delle ripercussioni notevoli.

                Questo è stato messo ben in luce da uno studio del 1968 svolto in California; cosa è stato osservato?

                In pratica è stato messo in evidenzia come i figli di genitori separati inizino a sviluppare problemi comportamentali o comunque disagi di diverso tipo ancor prima della separazione. 

                Questo ci fa capire quanto, in realtà, vivere in un ambiente poco sano determini effetti estremamente negativi sui bambini ed ecco perché, spesso, la separazione è una buona decisione da prendere.

                Indubbiamente, però, bisogna anche considerare che il divorzio porta con sè un grande cambiamento per chi deve affrontarlo; questo non significa che necessariamente chi lo subisce avrà psicopatologie o traumi. 

                Semplicemente è una fase di transizione, anche traumatica che comporta un cambiamento radicale per un bambino, soprattutto se dovrà cambiare casa, quartiere, scuola o addirittura città. 

                A ciò si aggiunge il fatto che con il divorzio il bambino dovrà accettare l’idea di non avere più nella sua vita quotidiana uno dei propri genitori, ovvero uno dei suoi punti di riferimento. 

                Tutto ciò non deve e non può essere dimenticato o semplicemente ignorato, tenendo conto del fatto di una cosa fondamentale: spesso, il bambino ha bisogno di circa un anno per metabolizzare e affrontare tutti questi nuovi cambiamenti. 

                Ed è proprio in questo anno che il bambino potrebbe avere comportamenti strani o diversi dal solito, del tutto normali però se vengono contestualizzati alla situazione che vive.

                Per questo bisogna essere molto attenti e non lasciarlo mai da solo.

                Quali sono i problemi che devono affrontare i figli?

                Come già ribadito, il divorzio comporta un vero e proprio cambiamento che, spesso, può tramutarsi in un vero e proprio trauma per il bambino, soprattutto se non viene gestito ottimamente dalle famiglie e dagli adulti di riferimento. 

                I problemi che i bambini dovranno affrontare in questo momento della loro vita sono, indubbiamente, differenti e cambiano soprattutto in relazione all’età.

                 Come afferma anche lo psicologo Carl Pickhart:

                Fondamentalmente, il divorzio tende a intensificare la dipendenza del bambino e accelerare l’indipendenza dell’adolescente; spesso provoca una risposta regressiva nei bambini e unarisposta aggressiva negli adolescenti”.

                Questo già riassume come, effettivamente, il divorzio impatti a seconda dell’età. Vediamo i dettagli qui di seguito,

                La fase infantile (0-5 anni)

                Se il divorzio avviene quando il bambino è molto piccolo, le reazioni e le problematiche saranno ovviamente differenti. 

                Durante i primi anni di vita, fino ai 3 anni circa, il bambino non riesce a comprendere appieno cosa stia avvenendo o semplicemente cosa sia il divorzio.

                Questo, però, non significa che è ignaro di tutto ciò che avviene intorno a lui; in questa fase, infatti, i bambini sono sintonizzati a quelli che sono gli stati emotivi dei propri genitori che diventano l’elemento fondamentale del loro benessere.

                Ecco perché, sicuramente, il bambino riesce a comprendere che qualcosa sta cambiando e percepisce gli stati d’animo negativi dei propri genitori. 

                A ciò si aggiunge l’assenza di uno dei genitori che, ovviamente, può seguire la fase di separazione: anche ciò viene compreso dal bambino.

                Ecco perché spesso un figlio arriva a percepire e a provare uno stato di abbandono. 

                Nella fase che va dai 3 ai 5 anni, i bambini riescono a comprendere maggiormente cosa sia il divorzio e sono molto interessati a ciò che avviene; in questa fase, però, è presente ancora l’egocentrismo tipico delle prime fasi di vita ed è per questo che il bambino può arrivare a pensare che il divorzio sia avvenuto per colpa sua. 

                Anche in questa fase il bambino può sentirsi abbandonato o può avere paura di un vero e proprio abbandono; infatti aumenta il senso di dipendenza dal genitore.

                In questa fase, quindi, il bambino deve riuscire a comprendere che non è lui la causa del divorzio e deve riuscire a mantenere attiva la relazione con entrambi i genitori.

                L’età scolare

                Durante questa fase il bambino comprende cosa sta avvenendo e capisce anche cosa sia il divorzio e cosa comporta. Questo, ovviamente, non significa che il bambino sia esente da paure e difficoltà; principalmente percepisce un senso di abbandono e di perdita di un proprio punto di riferimento, ossia il genitore, e ciò ovviamente può determinare anche un’insicurezza a livello personale. 

                In questa fase sicuramente il bambino deve riuscire a capire che, nonostante il genitore non sia presente costantemente nella sua vita, come accadeva prima, nulla in realtà è cambiato nei sentimenti e nella relazione. Questo spesso non è facile, soprattutto se di mezzo ci sono conflittualità tra genitori e le rispettive famiglie.

                L’adolescenza

                In questa fase il divorzio diviene un elemento aggiuntivo che può disorientare e complicare la vita dell’adolescente. 

                Questa fase di vita, infatti, è di per sé ricca di cambiamenti e problematiche: in questo caso, quindi, il divorzio diviene un cambiamento aggiuntivo da dover affrontare. 

                Il ruolo dei genitori in questa fase è cruciale, perché l’adolescente sente il bisogno di una maggiore indipendenza ma, allo stesso tempo, ha bisogno dell’adulto, come punto di riferimento, a cui affidarsi e verso cui rispecchiarsi.

                 In questa fase, quindi, il divorzio può essere problematico da accettare, perché determina l’allontanamento verso un genitore: questo crea insicurezza nell’adolescente. 

                Ecco perché, spesso, l’adolescente può rifugiarsi in comportamenti problematici oppure chiudersi eccessivamente in Sé stesso.

                In questa fase, quindi, l’adolescente deve riuscire a superare questa fase di cambiamento, cercando di mantenere viva la relazione con entrambi i genitori e cercando di vederli sempre come il proprio punto di riferimento nonostante i cambiamenti avvenuti.

                Conseguenze possibili sui figli

                Ma cosa può portare, concretamente, il divorzio? Quali conseguenze ci possono essere?

                 Se ci riferiamo ai diversi studi condotti a tal proposito, non possiamo non renderci conto di come un evento di questo tipo, arrivi a influenzare la vita dei figli di genitori separati.

                Lasciamo parlare i dati, per capire meglio di cosa stiamo parlando.

                Sembrerebbe che circa il 25% dei figli minorenni di divorziati non riesca a portare a termine la scuola superiore. Sembra inoltre che la metà dei figli divorziati arrivi a manifestare problemi di dipendenza dall’alcol o altre droghe.

                Da ulteriori studi si  evince inoltre che i figli che crescono in famiglie separate hanno maggior probabilità di ammalarsi.

                Non solo. Da altri studi si è evidenziata una cosa davvero sconcertante: sembrerebbe che la separazione dei propri genitori arrivi a causare scompensi maggiori della morte dei genitori: problemi emotivi, depressione, ansia, fobie.

                Insomma tutto ciò che si manifesta a seguito della perdita di uno o entrambi i genitori, a causa  di un vero e proprio lutto. Ma la causa di tutto è il divorzio in sé o c’è dell’altro?

                La vera causa delle difficoltà emotive e comportamentali viste non è tanto da associare all’avere o meno dei genitori separati, ma tanto al modo in cui questi gestiscono il tutto.

                Cosa fare? Consigli utili

                Come abbiamo visto, in relazione all’età, il divorzio determina difficoltà differenti che, quindi, il bambino deve riuscire ad affrontare ottimamente. 

                Inoltre diverse sembrano essere le conseguenze derivanti, anche a livello comportamentale e non solo.

                Come abbiamo visto, però molto dipende dal modo in cui viene gestita la separazione: insomma molto dipende dal fatto se si hanno genitori in conflitto o meno.

                Detto questo, cosa si può fare in questi casi? Cosa possono fare, quindi, i genitori per aiutare i propri figli ad affrontare questa nuova fase di vita, al fine  di attutire il colpo?

                Sicuramente devono assumere fino in fondo il ruolo dei genitori: ovvero devono sapersi comportare da persone  adulte e mettere al primo posto il bene dei propri figli.

                Come possono farlo? Vediamo qui di seguito  alcuni  suggerimenti  utili, anzi indispensabili.

                Comunicazione : non deve assolutamente mancare

                La chiave di ogni cosa è sicuramente la comunicazione; questo è ancor più vero quando si vivono situazioni difficili come il divorzio. 

                Quello che bisogna sicuramente fare è riuscire a comunicare: i genitori devono cercare di spiegare i motivi alla base del divorzio, rassicurare il bambino rispetto ad alcune paure che può sperimentare e, soprattutto, fargli capire che la colpa del divorzio non è sicuramente sua. 

                Per poter riuscire a comunicare nel miglior modo possibile una decisione di questa portata, è fondamentale che la stessa venga comunicata dagli stessi genitori, con un certo preavviso.

                Il preavviso dipende dall’età del figlio: se si tratta di un bambino  sotto la preadolescenza bastano due o tre settimane di anticipo rispetto alla vera e propria separazione,per gli adolescenti può poter essere necessario un periodo più lungo, circa 4-5 settimane di anticipo, poiché a questa età si affrontano le cose diversamente.

                La comunicazione, però, non deve essere unilaterale: insomma anche il figlio deve comunicare con i propri genitori.

                Questo, spesso, può essere più complicato di quanto si pensi, perché spesso il bambino può sentirsi inadeguato o inopportuno. 

                Essenziale, però, è condividere col proprio genitore ciò che si prova e ciò che si percepisce; allo stesso modo, utile è comunicare ciò che fa star male, ad esempio le conflittualità tra i genitori o la poca presenza di uno di essi.

                 In questo modo il figlio può diventare la guida per i genitori che, ovviamente, vivono questa situazione per la prima volta. 

                Mantenere attiva la routine

                Un buon modo per aiutare il proprio figlio ad affrontare questa fase di cambiamento è cercare di mantenere attive le abitudini che si avevano prima del divorzio stesso.

                 Fondamentale è che entrambi i genitori siano presenti, nonostante la distanza fisica, e che ci siano momenti di condivisione, gli stessi che si avevano anche prima del divorzio. 

                Questo ovviamente è fondamentale perché aiuta il bambino a capire che, nonostante il cambiamento, le cose non sono cambiate troppo e ciò permette di mantenere vivo il senso di sicurezza soprattutto rispetto alla sua vita e ai suoi genitori. 

                Non denigrare l’altro genitore

                Importante quando ci si separa  è ricordarsi di non denigrare mai la propria ex compagna: insomma seppur l’amore sia finito, non bisogna dimenticare che dall’altra parte abbiamo la madre o il padre di nostro figlio/a. 

                Per la serenità mentale di quest’ultimo, è fondamentale non parlare male dell’altro genitore in sua presenza o peggio ancora portarlo a dover scegliere.

                Perché una della paure più grandi di un figlio di genitori separati è proprio questa: “a chi devo volere più bene”?”.

                Per questo è necessario cercare di valorizzare i punti di forza dell’altro genitore: un bambino ha bisogno di questo e non di sentirsi  in balia di un conflitto.

                “Le coppie di divorziati non hanno più niente in comune ma continuano a odiarsi, anzi: a bisticciare come bambini”, spiega Marco Soprano, psicologo dell’associazione Gesif (Genitori separati insieme per i figli).

                Bene, questo non dovrebbe succedere, soprattutto in presenza dei propri figli.

                Lo stesso continua “Non si deve sfogare sui figli la rabbia che si prova per l’ex coniuge, non si deve chiedere loro, magari con tono indagatorio, se l’ex partner ha un nuovo compagno, per esempio”.

                Insomma è importante conservare un clima sereno in cui non c’è posto per i conflitti, i dubbi, le domande e le inquisizioni.

                Un bambino o un figlio ha bisogno di altro: ha bisogno di essere rassicurato e amato.

                Riflessioni conclusive

                Il divorzio può poter rappresentare un momento delicato per chi si separa, ma soprattutto per i figli.

                I figli, in un certo senso, a causa di questo evento si ritrovano a dover accettare una realtà scomoda che non dipende certamente da loro, anche se spesso arrivano a sentirsi anche in colpa per  questo.

                Come abbiamo avuto modo di vedere il divorzio può avere delle ripercussioni sui figli, in base alla loro età : conoscerle è importante, poiché solo con l’aiuto dei loro genitori possono riuscire a fronteggiare una situazione come questa.

                D’altronde come sottolineato poco fa, spesso alla base delle diverse problematiche riscontrate dai figli non c’è solo la separazione in sé, ma anche la modalità in cui questa avviene.

                In un certo senso “separarsi bene”, porta a proteggere i figli da eventuali problemi: e non è forse questo il dovere di ogni genitore?

                Proteggere i propri figli, sempre e comunque?

                Dott.ssa Alessia Pullano
                Psicologa e Psicoterapeuta

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                  Difficoltà Relazionali e Affettive

                  In questo articolo analizzeremo le difficoltà relazionali e affettive suggerendo dei metodi per affrontarle.

                  Lo sviluppo relazionale affettivo consente di interagire in modo adeguato con gli altri avendo sviluppato dei modelli interni che portano a richiedere la vicinanaza dei nostri simili e ad investire emotivamente nelle relazioni.

                  Nelle persone più sensibili alle emozioni, il minimo stimolo può portare a delle vere e prorie tempeste emozionali, che possono essere percepite come paradisiache ma a volte essere addirittura infernali e devastanti. 

                  Nel corso della storia evolutiva dell’uomo il nostro cervello si è evoluto, sviluppando centri superiori quali la neurocorteccia, ossia una grande massa di tessuto nervoso dove ha sede il pensiero.

                  Il primo legame affettivo: madre – bambino

                  Con le sue connessioni ha permesso di sviluppare il legame affettivo tra madre e figlio.

                  Questo legame è molto importante in quanto costituisce la base delle future relazioni interpersonali diventando anche un fattore predittivo di come potranno svilupparsi.

                  Infatti, se questo rapporto manca o viene significativamente alterato, nel bambino si generano dal punto di vista emozionale stati carenziali che influenzano negativamente e, spesso irreversibilmente, il suo sviluppo affettivo. 

                  Può capitare quindi, che si possono avvertire delle  difficoltà nella sfera affettivo-relazionali, un insieme di disagi e sofferenze che possono essere temporanei ma in alcuni casi la loro durata può protrarsi nel tempo per un periodo più lungo, tanto da divenire una condizione stabile, in quanto la nostra organizzazione dell’identità personale si è strutturata in modi specifici  incidendo sulla sfera relazionale, comunicativa, emotiva, affettiva e anche lavorativa.

                  Quali sono le difficoltà che possono incidere sulle relazioni e l’affettività?

                  Sono problematiche legate a disturbi del tono dell’umore quindi a stati depressivi o maniacali, a disturbi d’ansia e a tutti quelli altri disturbi che possono essere collegati alle emozioni.

                  Sono dei disagi abbastanza diffusi tra le persone, alcune volte possono raggiungere livelli di attenzione non trascurabili dove c’è la necessità di essere aiutati da uno psicologo.

                  Qual è la causa di queste difficoltà?

                   Le difficoltà relazionali possono essere causate da diverse situazioni e fattori. 

                  Si potrebbero sviluppare delle  situazioni in cui c’è un elevato grado di conflittualità interpersonale, una comunicazione che possa essere poco efficace portando con sé la possibilità di fraintendimenti e rancori.

                  Le cause vanno ricercate spesso, come già accennato precedentemente, nel legame con i genitori,  in eventi traumatici di cui si è stati protagonisti nell’infanzia. 

                  Quando le madri si presentano ansiose, ambivalenti nei modi di comunicare con i propri figli, queste non fanno altro che trasferire sui propri bambini tutte le insicurezze di cui loro si sono fatte carico e ciò metterà a rischio il modo di relazionarsi con gli altri, ottenendo in altre parole l’effetto contrario, più cercano di proteggere i loro piccoli dai pericoli più li predispongono ad essi.

                  Questo atteggiamento potrà portare ad avere convizioni distorte, rigide sia delle cose che possono succedere che delle persone stesse.

                  Altre volte si può anche essere portati ad ingigantire in modo sproporzionato le situazioni e da qui ne possono derivare incomprensioni, atteggiamenti ostili, rancorosi. 

                  Come si possono manifestare nell’individuo?

                  La persona può percepire un abbassamento del tono dell’umore, sentirsi “giù”, apatico, triste, sentire di non valere nulla, uno stato di pessimismo generalizzato,  un senso di oppressione che lo pervade.

                  Può arrivare a perdere interesse in tutte o quasi le attività che svolgeva precedentemente. Anche la vita di coppia può subire delle ripercussioni, la mancanza di interesse si può estendere persino nelle relazioni affettive. 

                  Questo stato di malessere generalizzato si  accompagna spesso  ad un rallentamento più o meno importante di alcune funzioni cognitive come per esempio l’attenzione, la percezione, la memoria, e da un rallentamento anche nei movimenti.

                  Un malessere chiamato depressione

                   Ci si trova in periodi in cui si fa veramente fatica a restare attenti a tutto ciò che ci circonda e la difficoltà si estende anche quando bisogna memorizzare qualcosa.

                  Si pensi per esempio a situazioni lavorative o scolastiche dove queste funzioni dovrebbero essere sempre attivate e indispensabili per l’esecuzione dei propri compiti e invece si fa fatica, si avverte un senso di stanchezza che non permette di capire ciò che si sta facendo o di ricordarlo. 

                  Si percepisce un senso di disagio nello stare tra la gente, si preferisce la pace e la tranquillità delle proprie mura domestiche, si inizia così un ritiro dalle relazioni interpersonali e da tutte quelle occasioni “sociali” che allontanano dal confortante “nido” che si è costruiti.

                   Ci si avvia verso l’avere una visione distorta di se stessi e degli altri. La certezza che aleggia nella mente è quella di non valere nulla, di non essere in grado, di non essere degno d’amore.

                  Con queste premesse “catastrofiche” si dà il via ad un ritiro anche nelle relazioni amorose e da qui nella coppia vengono meno le attenzioni per il proprio partner, l’intimità, la comunicazione, il desiderio, procedendo verso la strada oscura della depressione che paralizza.

                  Al contrario ci si può sentire travolti dall’agitazione maniacale in cui si ha una tale fiducia in se stessi che si è convinti di non avere bisogno di aiuto nonostante le decisone che si prendono in questo periodo spesso si rivelano disastrose.

                  Si provano sentimenti molto intensi che sfuggono al controllo spazzando via tutti i momenti in cui si era felici.

                  La persona può quindi sentirsi euforica, eccitata con manifestazioni che sono sproporzionate rispetto agli eventi. In questo caso il tono dell’umore sembra essere positivo, allegro, si ha una gran voglia di fare.

                  Tutto è accelerato, si hanno tante idee, l’autostima è elevata, si dorme di meno, si iniziano tante attività ma in realtà non si porta a termine nulla a causa dell’impulso di fare qualcosa e tutta quell’euforia e stato di benessere iniziale si trasforma in irritabilità, si diventa irascibili, scontrosi.

                  Anche questa è una forma di depressione che viene definita maniaco-depressiva.

                  Questo stato porta ad avere delle difficoltà di relazione  e affettive con gli altri a causa della eccessiva attivazione presente nella fase che porta l’individuo a essere “troppo”, tanto da creare disagio negli altri.

                  Come ha osservato Aristotele è importante che le emozioni siano appropriate, che il sentimento sia proporzionato alla circostanza. I momenti difficili, come anche quelli positivi, felici, sono necessari alla vita per darli un sapore, ma ci vuole equilibrio.

                  E’ il rapporto che c’è tra ciò che si vive in modo positivo e negativo a determinare il senso del benessere psicologico.

                  Gli stati d’ansia 

                  Alla base dei disturbi d’ansia c’è una eccessiva preoccupazione che attiva uno stato incontenibile di agitazione che porta a fissare l’attenzione su ciò che si ritiene essere una minaccia.

                  Ci si è talmente “fissati” a trovare una strategia efficace per controllare il pericolo che si percepisce, che si ignora tutto il resto. 

                  L’ansia di per sé non è disfunzionale, anzi è una caratteristica adattiva che permette alle persone di rilevare situazioni di pericolo e mettere in moto i meccanismi fisiologici dell’attacco – fuga.

                  Essi sono necessari alla sopravvivenza della specie. Il problema nasce quando c’è una difficoltà che si traduce in un vero e proprio disturbo, la persona non la vive come situazione momentanea e contestualizzata all’evento ma diventa pervasiva e l’individuo è attivato più del necessario.

                  La questione è che le preoccupazioni appunto diventano croniche, ripetitive all’infinito e non si riesce a intravedere soluzioni che possano essere favorevoli.

                  Gli stati d’ansia possono portare allo sviluppo di fobie, ossessioni e compulsioni e di veri e propri attacchi di panico.

                  La persona che si sente sopraffatta dall’ansia può sentirsi tachicardica, avere le palpitazioni, sentire un senso di oppressione al petto che porta alla sensazione di avere una maggiore necessità di inglobare aria nel proprio corpo.

                  L’individuo è portato a pensare che sia vittima di un problema al cuore, di un infarto, e più aumenta questa paura più i sintomi diventano intensi.

                  Può anche sviluppare paure che si possono trasformare in vere e proprie fobie come per esempio l’agorafobia che consiste nella paura di tutte quelle situazioni, aperte o chiuse, dalle quali non è possibile allontanarsi rapidamente e da cui non c’è via di uscita, oppure la claustrofobia che al contrario denota la paura di sentirsi intrappolati in spazi chiusi.

                  Si possono poi provare paure eccessive alla sola vista di un animale, le più comuni sono per i rettili, i ragni, gli uccelli.

                   Altre volte invece si è portati come modalità per contenere l’ansia ad accumulare qualsiasi oggetto, o a pulire in modo ossessivo la casa, e qualsisi cosa che ci circonda, tutto mediante dei rituali che devono essere necessariamente attuati altrimenti quel pensiero si fissa nella mente tanto da diventare un “martello pneumatico” nel nostro cervello che trivella tutto il resto, non lasciando spazio per altro finchè il rituale non sia compiuto.

                  L’ansia sociale mette a dura prova anche le relazioni interpersonali, avendo la persona paura eccessiva nel vivere  una o più situazioni sociali, come avere un qualsiasi dialogo con altri, incontrare persone sconosciute, essere osservati mentre ad esempio si sta mangiando o bevendo qualcosa, o parlare ad un pubblico. 

                  Come affrontare il problema

                  “ Tu sei sempre stato uno che tutto sopportando nulla subisce: e con pari animo accogli i favori e gli schiaffi della fortuna […]. Mostrami un uomo che non sia schiavo delle passioni me lo porterò chiuso nell’intimo del cuore, nel cuore del mio cuore, come ora con te.”

                  (William Shakespeare, Amleto)

                  E’ proprio con queste parole che deve iniziare la riflessione su come si possano affrontare i problemi. Ciò di cui si ha necessità è l’avere una buona padronanza di sé, resistendo alle tempeste emotive che pervadono il nostro essere, che ci rendono “schiavi” delle nostre passioni. 

                  Si ha bisogno di sviluppare l’arte di poter tranquillizzare se stessi, non a caso due tra i più grandi teorici della psicologia Bowlby e Winnicott la identificano come lo strumento psichico più importante.

                  Studiando i bambini hanno visto che essi imparano a confortarsi in modo autonomo, imitando le persone che si prendono cura di loro, ciò gli rende meno incrini ad essere sopraffatti dalle emozioni. Si ritorna quindi al legame principale, quello tra madre – bambino. 

                  Là dove questo non abbia seguito uno sviluppo adeguatamente e sufficientemente sicuro, e dove si ravvedono queste difficoltà nella sfera relazione ed affettiva è bene migliorare la propria consapevolezza cercando l’aiuto di un professionista che sia in grado si sviluppare la nostra intelligenza emotiva che consiste nella capacità di liberarsi dagli stati d’animo negativi, imparando a gestire le tempeste emozionali dando un giusto peso alle emozioni. 

                  E’ necessario che si impari a riconoscere le proprie emozioni, che si sia un controllo su di esse cercando di sviluppare la capacità di calmarsi, liberarsi dall’ansia che ci attanaglia, dalla tristezza.

                  Altra necessità è quella di imparare a motivare se stessi, a dominare i nostri vissuti emozionali per raggiungere l’obiettivo che ci si è prefissati. 

                  Si deve cercare di controllare le attivazioni emotive per essere in grado di gestire la capacità di ritardare le gratificazioni e di reprimere gli impulsi.

                  Ma è importantissimo anche saper riconoscere le emozioni altrui, essere empatici.

                  Questa è una caratteristica che ci permette di saper relazionare in modo adeguato con gli altri, mettersi nei panni dell’altro ci induce a seguire dei principi morali che ci permettono di aiutare, è necessario sviluppare la capacità di essere altruisti.

                  Sintonizzarsi sugli stati emotivi di un’altra persona ci consente di capire come si sente e nelle relazioni di coppia questo diventa fondamentale per stabilire relazioni sane e durature.

                  La coppia prevede una diade in cui non siamo i soli ad investire nell’affetto, ad avere dei bisogni, delle esigenze, dei desideri, capire quindi l’altra persona, comunicare e relazionarsi con essa in modo costruttivo permette al rapporto di continuare e di essere stabile.

                  In una famiglia con dei bambini, un esempio di questo tipo assicura alla propria prole una identificazione ed introiezione di questi valori che saranno riportati in seguito dai figli nelle loro relazioni.

                  Ulteriori indicazioni

                  Nell’immediato quando ci si sente sopraffatti dall’ansia è consigliabile spostare l’attenzione su qualcos’altro, si può controllare la respirazione e cercare di rilassarsi.

                  Durante il giorno si potrebbe uscire per fare una passeggiata, shopping, tutto però seguendo regole di buon senso, come si è visto prima, qualsiasi cosa portata all’eccesso diventa disfunzionale anche fare shopping se questo diventa compulsivo. 

                  Dott.ssa Alessia Pullano
                  Psicologa e Psicoterapeuta

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